Bene ha fatto Radio3 a riproporre la lettura de Il sergente della neve, la ritirata di Russia vissuta da Mario Rigoni Stern. Colpisce che quei luoghi, lontanissimi, siano testimoni, a 80 anni di distanza, delle stesse disumane tragedie, della stessa orribile vita di trincea, delle stesse morti o devastazioni di tante giovani vite. «Ci hanno mandato nel Donetz, forse arriveremo a Harkov» (ora Karkiv, ma è sempre la stessa città). Solo qualche ufficiale ha una vaga idea dei luoghi, gli alpini non sanno nulla, ci sono arrivati dopo 3000 km di tradotta e 50 giorni di marcia, chissà cos’è questa «ansa del Don». Certo è invece che ci si trova lontani da casa e non è detto che ci si potrà tornare: sergentmagiù, ga rivarem a baita? è la domanda angosciosa che al sottufficiale Mario Rigoni è fatta ogni giorno dai suoi soldati. Gennaio 1943, la vita è sconvolta: la natura è ostile, il freddo intenso, si dorme a strappi e di giorno, quando si può; la notte si vigila, la paura avvolge tutto come nebbia, e la morte giunge all’improvviso. Il giorno prima addentavi una fetta di polenta accanto a lui, il giorno dopo portano l’alpino esanime, colpito in piena fronte, magari un amico o un parente del tuo paese. I russi, di cui si odono le voci, al di là del fiume, tentano ogni tanto un attacco all’avamposto italiano, morti e feriti restano sul fiume gelato. Tentano di riprendere almeno i feriti, che urlano di dolore e implorano Mama. (Anche i feriti italiani chiamano «Mamma»). E qui un raggio di umanità nel buio della barbarie: «Non sparate, non sparate», ordina Rigoni: «Raccolgono morti e feriti».

Una sera arriva l’ordine di ripiegamento. Abbandonata la linea del Don inizia una lunga e tragica ritirata, nel gelo più tremendo e nell’abbandono più totale. «La guerra più terribile che le stelle abbiano mai visto» (L’ultima partita a carte).

Venendo ai nostri giorni è lecito chiedersi: a che punto è la notte? A me sembra sempre più buia. Putin esce comunque rafforzato dalle finte elezioni plebiscitarie di questi giorni; gli Usa e l’Europa divisi e incerti, almeno fino alle proprie non lontane scadenze elettorali. Macron mirando a un ricupero rispetto ai sondaggi che danno Marine Le Pen ben oltre il 30%, si lancia in uscite sempre più allarmanti. E la sua avversaria, fine politica, prontamente risponde riproponendo la vecchia ricetta francese dell’Union Sacrée: per la prima volta riconosce i diritti dell’Ucraina e condanna l’aggressione russa. Come dire «Paris vaut bien une messe», ma come ha acutamente osservato un commentatore, la conversione della Le Pen sarà definitiva, come quella di Enrico IV, oppure tattica in vista delle elezioni europee e successivamente della scalata alla presidenza francese del 2027?

Mantenere l’Ucraina nella democrazia

Anche altrove spira un’aria da Union Sacrée, detta anche Burgfrieden, o resa bene, con l’adagio «right or wrong, my country», che mira a spegnere il dibattito politico e ad affermare un’unità fittizia all’insegna dell’interesse nazionale. E chi non si adegua rischia di passare per Andrea Chenier «nemico della patria!». Speriamo che siano solo schermaglie elettorali, ma Macron, forte dell’arma nucleare, potrebbe rivendicare una primazia in Europa e prova ne è stata l’incontro a tre con Germania e Polonia nella evocativa città di Weimar. Mancava l’Italia, il che la dice lunga sulla scarsa considerazione del nostro Paese, nonostante «l’orgoglio e la fierezza» spesso esibite da Giorgia Meloni.

All’Ucraina mancano proiettili di artiglieria, ma soprattutto soldati da “sacrificare” nel massacro (siamo a questo grado di cinismo, ormai!), difficile spiegare a Zelensky che la sua vittoria è «mantenere quel che resta del suo Paese nel campo democratico», con un’opportuna garanzia internazionale. Anche perché non è detto che la rinuncia degli ucraini ai territori occupati dai russi basti a Putin per iniziare un negoziato. E, a parte la minaccia nucleare che Mosca può sempre brandire, in guerra prevale la forza economica. Ci viene in soccorso anche qui Rigoni Stern in quel suo libro testamento che è L’ultima partita a carte, quando in un’osteria del Lingotto, un suo parente afferma: «Noi facciamo 10 autocarri, gli americani ne fanno 100, noi facciamo 1000 mitragliatrici, loro ne fanno 10.000, per ogni nave silurata loro ne fanno 10». E siamo nel luglio 1942, quando la vittoria di Germania e Italia sembrava ancora largamente possibile. L’economia russa non ha sofferto poi troppo dalle sanzioni occidentali e si giova anche di altri vantaggi. Un esempio per tutti: la richiesta di trasporti ferroviari sulla transiberiana è aumentata del 40% da quando la rotta di Suez è diventata incerta e rischiosa. Occorrono mediatori per far ragionare i contendenti, ma non se ne vedono all’orizzonte. Sempre più drammatico appare il titolo del romanzo antizarista di Cernysevskij, poi utilizzato da Lenin per il suo noto pamphlet: che fare?

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