Il regista Matteo Garrone ci aveva abituato a film con un’impronta autoriale forte: penso a film come Primo amore, o L’imbalsamatore, ma anche Dogman. Con Io capitano Garrone interviene su una materia incandescente anche per il contesto politico, ma lo fa nel modo più piano e tradizionale possibile, con una storia narrativamente lineare e senza nessun artificio di regia, che non sia un paio di sequenze oniriche (forse fin troppo didascaliche). La storia del sedicenne senegalese Seydou e del cugino Mussa viene raccontata da capo a fondo senza ellissi, senza anacronie, come in un una sorta di documentario colorato a pastelli. Evidente è infatti il lavoro sui colori, nel rendere questi paesaggi sub sahariani e poi sahariani e libici come paesaggi affascinanti all’occhio dello spettatore. Perfino nella sua povertà essenziale, la casa di Seydou paradossalmente è bella. Come è bella la madre e le sorelline quando si truccano, e come è seducente la danza nella piazza del paese. Chi tenta il grande viaggio non scappa da terre invivibili e respingenti, ma da quei paesi che noi occidentali poi scegliamo per le nostre confortevoli vacanze estive, con tanto di foto coi bambini postate su istagram. Tutti sono contrari al viaggio: la mamma, ovviamente, ma anche il saggio del paese, anche chi forse ha già visto e sperimentato: il deserto è cosparso di cadaveri. Ma lo stregone dà il consenso e i morti acconsentono. I personaggi che fanno da contorno al protagonista pur ben individuati non hanno una loro precisa soggettività. Chi emerge è lui, Seydou, il “capitano”: ha paura, molto più del cugino, all’inizio, eppure sarà lui a consolare il cugino che vuole tornare, alla fine.

Non deve stupire troppo, nel generale consenso delle recensioni (e la scelta di farlo correre come film italiano per l’Oscar), quella negativa di Nigrizia. Si rimprovera al film, non a torto, una scelta estetica non radicale: l’Africa rappresentata nel film resta quella di maniera, il film oscilla tra i registro fiabesco-ottimista e quello documentario-realista, senza scegliere. Nel deserto ci sono i cadaveri, ma perfino quelli, nella fotografia patinata del film, sembrano belli. La critica è corretta anche se forse ingenerosa: la sola visione del film basterebbe per convincere gli spettatori dell’inopportunità della politica migratoria del governo attuale (e non solo). Ma evidentemente un film non basta.

Il regista ha scelto (e questa è una scelta radicalmente “politica”) di lasciare che i personaggi parlino nella loro lingua. Se il linguaggio delle immagini è piano, quasi estetizzante, quello del sonoro non è usale, almeno per le orecchie dello spettatore medio italiano, non abituato a vedere un film interamente sottotitolato! Ma del resto solo così è possibile scoprire quanto la lingua sia importante nel definire rapporti e identità. Il wolof, anzitutto, la lingua senegalese, ma poi il francese, le altre lingue dei paesi attraversati – Mali, Niger, deserto, Libia ‒ e le poche parole di italiano, perlopiù volgari, sono sulla bocca del capitano, dopo aver finalmente avvistato la terra italiana, la meta del viaggio.

Ottima la direzione degli attori giovani, il film non indulge in patetismi ma non risparmia nulla per farsi un’idea di che cosa significhi compiere il viaggio da parte di un sedicenne: sono cose che si sanno, si leggono, ma vederle con gli occhi ‒ a volte in soggettiva ‒ del protagonista fa compiere un atto di consapevolezza. Non si esce piangendo, forse, ma si esce rafforzando l’idea di un’umanità comune. Ed è bene che la storia finisca bene e con l’identificazione con un personaggio “positivo” (pur coprendo un ruolo che oggettivamente è considerato da delinquente per il codice penale italiano: ma non posso spoilerare troppo!). Come è bene che tutte le polemiche legate agli sbarchi siano lasciate da parte dallo sguardo in macchina di Seydou, un finale molto bello. Il film è forse tanto più politico proprio in questo apparente rifiuto di ogni politicizzazione della storia. Siamo tutti in viaggio con Seydou. Ma non tutti come lui possiamo dire di non avere morti sulla coscienza.

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