A due mesi dalla morte di Johan Galtung, avvenuta il 17 febbraio 2024, proponiamo una rilettura del suo volume teorico probabilmente più importante, Pace con mezzi pacifici (Esperia 2000, ora fuori commercio), fatta da Enrico Peyretti.

Questo volume è il manuale universitario di Johan Galtung, lo studioso norvegese (vichingo, diceva lui), matematico e sociologo, iniziatore degli Studi per la Pace contemporanei, per la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Sull’etica della pace come riduzione della sofferenza, leggiamo: «Molte cose sono necessarie se il compito dell’operatore di pace è ridurre la sofferenza (dukkha) e migliorare la vita (sukkha). La cultura della pace è una prospettiva di pensiero e di azione fortemente critica verso il mondo attuale e le culture che lo interpretano.

La domanda è: qual è la causa e quali gli effetti della violenza nelle sue tre forme principali? Infatti la distinzione fondamentale è tra violenza diretta (verbale o fisica; sul corpo, sulla mente, o sullo spirito), violenza strutturale (politica, che si esercita nella repressione; economica, che produce sfruttamento) e violenza culturale. La violenza diretta è la più visibile e più facilmente deprecata da tutti, ma anche la più superficiale, per quanto dolorosa. Meno visibile e più radicata è la violenza incarnata nelle strutture sociali, anche se più accettata.

La supremazia della cultura

Ma la più grave e profonda, la meno riconosciuta come tale e persino onorata, non solo accettata, è la violenza culturale, insediata nelle tradizioni, nelle visioni del mondo collettive, nelle menti. Essa è la causa più profonda, che agisce sulle altre occultandole con la disinformazione, legittimandole e giustificandole con l’ideologia. La definisce come «quegli aspetti della cultura (la sfera simbolica della nostra esistenza) che possono essere usati per giustificare o legittimare la violenza diretta e strutturale» negli ambiti: religione, diritto e ideologia, lingua, arte, scienza, e “cultura profonda” o cosmologia (nel senso di Weltanschauung, concezione del mondo): quel substrato di presupposti profondi, di idee collettive sulla realtà, che definiscono cosa è normale e naturale. La cosmologia è inconscia, a differenza dall’ideologia che è cosciente. Ciò che è più importante sono le strutture e le culture profonde, perché esse sono irriflesse, addirittura inconsce. «Perché le persone uccidono? In parte perché sono educate a farlo: non educate direttamente a uccidere, ma a considerare legittimo uccidere in determinate circostanze. La tesi generale è quella della supremazia della cultura, o della civiltà, non l’assunto marxista della supremazia dell’economia, né l’assunto “realista” della supremazia militare, né quello liberale della supremazia delle istituzioni politiche (concettualizzato, ad esempio, nella dicotomia democrazia/dittatura)». Lo studio delle culture è importante per costruire la pace.

Ciò richiama la famosa affermazione di Hans Küng: «Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni». Così, riguardo agli aspetti religiosi delle culture, troviamo Galtung particolarmente severo col cristianesimo, mentre simpatizza per il buddismo. Galtung riconosce nel cristianesimo una forma dura e una dolce, che individua in san Francesco. Forse ci sono alcuni malintesi teologici. Il cristianesimo non è puramente e in modo esclusivo trascendente e verticale, perciò strutturalmente poco pacifico, come qui appare, perché è anche, ed essenzialmente, immanenza intima della vita di Dio nello spirito dell’uomo. È interessante che, a differenza della semplicistica affermazione che associa monoteismo e violenza, Galtung scrive: «Il problema della minaccia alla pace delle religioni abramitiche sembra non essere il monoteismo, ma l’idea di possedere l’unica fede valida per l’intero universo, in altre parole l’esclusivismo cum universalismo del Cristianesimo e dell’Islàm, e l’esclusivismo cum particolarismo (Terra Promessa) dell’Ebraismo».

Trascendere le incompatibilità

L’Autore chiama trascendenza la migliore trasformazione del conflitto, quella creativa che fa emergere dal processo qualcosa di nuovo, solitamente inaspettato. Ciò vuol dire che è stato utilizzato l’aspetto positivo del conflitto, che è la sfida a “trascendere” la contraddizione sottostante, realizzando così, o meglio trasformando, entrambi gli scopi incompatibili con soddisfazione di entrambi gli attori. «Il conflitto può essere trasformato se le persone lo gestiscono creativamente, se trascendono le incompatibilità, e se agiscono nel conflitto senza ricorrere alla violenza».

Un capitolo studia in particolare la trasformazione nonviolenta dei conflitti, con speciale riferimento all’esperienza e alla riflessione di Gandhi. Sono interessanti e chiarificatrici le pagine in cui Galtung critica l’affermazione «la nonviolenza non funziona», portando anche una decina di esempi importanti dalla storia del ’900. «Scrivere la storia di questo secolo violento e analizzarne la politica senza prendere in considerazione la nonviolenza significherebbe denigrarlo più di quanto meriti». Segue un elenco dei meccanismi fondamentali descrittivi di «come funziona» la nonviolenza. Sono i fattori culturali profondi che impediscono o facilitano la nonviolenza. «La pace è l’assenza/la riduzione della violenza di qualunque genere (diretta, strutturale, culturale). La pace è la trasformazione nonviolenta e creativa dei conflitti».

Due capitoli problematici si interrogano sul contributo delle donne: si assume come ipotesi di base, non nuova, che «gli aspetti femminili ad alta empatia-orizzontale-centripeta dispongono alla pace; quelli maschili a bassa empatia-verticale-centrifuga dispongono alla violenza». Almeno «il 95% della violenza diretta è commessa dagli uomini». Ma perché questo? Galtung chiama in causa l’interfaccia sessualità-violenza, una vicinanza neurologica tra orgasmo maschile e violenza. «È stato riportato che i soldati in combattimento hanno erezioni, come i boia: tutti ruoli soprattutto maschili». Ma la biologia può spiegare solo il 10-20% di questo fenomeno. Sono più decisivi i fattori strutturali e culturali, descrivibili nel linguaggio, nella religione, nelle strutture sociali, generazionali, urbane, comportamentali, nelle menti condizionate dal diverso rapporto di vicinanza fisica che maschi e femmine hanno nell’infanzia con la madre.

Oggi «del tutto assente è il concetto di sviluppo mondiale, dell’armonizzazione reciproca di tutti gli sforzi»; anche perché «il sistema degli stati è fondamentalmente incompatibile con la pace» per queste ragioni: il patriarcato statale, l’arroganza e la segretezza, l’idea di essere causa di se stessi, l’avere il monopolio sui supremi strumenti di violenza ed essere inclini ad usarli; tutti mali più accentuati negli stati grandi e più che mai nei superstati. Ora, il sistema mondiale è quasi solo un sistema di stati, che vi sono rappresentati da ristrette élite, le quali hanno il monopolio sulla definizione degli interessi del loro stato; la somma degli interessi statali adattati tra loro viene creduta essere l’interesse mondiale.

La pace è complessa, come la salute. «Più complesso il conflitto, più numerose le aperture per la sua trasformazione nonviolenta e creativa». Il semplicismo bipolare danneggia la ricerca della trasformazione.

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