Fin già dall’infanzia io non ero

Come eran gli altri – né vedevo

come vedevano loro – né traevo

le mie gioie dalla loro stessa fonte,

né da quella fonte ho mai attinto

il mio dolore – né mai ho spinto

il mio cuore a unirsi a quel volo:

ciò che ho amato, l’ho amato solo.

Fu allora – nell’infanzia – in nuce

d’una vita infausta – ch’ebbe luce,

da ogni abisso del bene e del male,

il mistero che ancor’oggi m’assale,

da lì ma anche dal torrente,

dalle rosse rupi e dalla sorgente,

dal sole, che intorno mi ruotava,

la cui tinta d’autunno s’indorava,

e dal lampo, che balenava in cielo,

non appena dal basso lo vedevo,

e dal tuono, e dalla tempesta,

dalla nuvola che sopra la mia testa

(mentre del cielo il resto era schietto)

assumeva di un demone l’aspetto.

(Edgar Allan Poe, Solo)

Marilynne Robinson, scrittrice statunitense diventata nota in Europa per il riconoscimento pubblico ricevuto da Barack Obama, ma di fatto una delle più grandi scrittrici viventi, nutre una speciale preferenza per gli outsider, quei personaggi inquieti e indecifrabili a se stessi prima ancora che agli altri. Quando le chiedono da dove derivi tale attrazione, Robinson fa naturalmente riferimento al Vangelo, ma in un’occasione cita questa poesia di Edgar Allan Poe, appresa da bambina.

Così considerato, grazie ai versi di Poe, il diverso assume un altro aspetto. Ce lo rende meno estraneo, ci fa acquisire il suo punto di vista, ci fa provare quello che lui prova: il suo trarre le gioie e i dolori da una fonte differente, la sensazione di non riuscire a condividere neppure le esperienze più comuni (ciò che ho amato, l’ho amato solo), quelle che aiutano a sentirsi parte di un mondo o almeno di una comunità (mai ho spinto / il mio cuore a unirsi a quel volo).

L’io-poetico racconta di vivere questa condizione da quando riesce a ricordarlo (fin dall’infanzia). E questo fa di lui un solitario, escluso o auto-esclusosi dal consorzio umano a cui pure appartiene. Non tenta una spiegazione, semmai se ne trovasse una persuasiva; piuttosto ritrae quel tempo lontano (su cui spende oltre metà del testo) a cui fa risalire l’origine di tutto.

Quello che deriviamo da questa descrizione è qualcosa di simile a un’opacità che immerge tutto, dentro e fuori di sé (mentre del cielo il resto era schietto). Se è mistero di bene e male, ha tuttavia l’aspetto di un demone che gli avrebbe reso la vita infausta – come i tanti personaggi tormentati di Edgar Allan Poe, autore noto soprattutto per i racconti di paura e di angoscia da cui sono stati tratti molti film, non sempre all’altezza della sua profondità narrativa.

A partire da Poe ma anche superandolo, Marilynne Robinson racconta i suoi personaggi più difficili e ambigui, immergendo il lettore in coscienze turbate dove non è semplicemente in gioco la realtà del bene e del male, ma la complessità dell’essere umano in balìa con le proprie pulsioni e l’effetto che producono sugli altri. È quello che fa la letteratura: ci racconta storie, consentendoci di fare esperienza indiretta delle possibilità di male che ci abitano; e così facendo, ce le rende meno astratte e sempre meno distanti.

Sono molti i personaggi caratterizzati dall’inquietudine e da tale medesima estraneità che la letteratura ha reso celebri, specie nella modernità più vicina a noi, segnata dall’individualismo e da un senso di solitudine insanabile: dall’Uomo del sottosuolo di F. Dostoevskij allo Straniero di A. Camus, da Frankenstein di Mary Shelley all’Orlando di Virginia Woolf, dai vari personaggi di Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino ai protagonisti di Carlo Coccioli (su tutti don Ardito Piccardi di In cielo e in terra), a sua volta un diverso nel contesto italiano in cui si è trovato a vivere e dal quale è dovuto fuggire a causa della sua omosessualità.

È ricca di demoni la nostra immaginazione, talvolta ci impauriscono, altre ci rassicurano. Meglio restare in una sana inquietudine.

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