In occasione del 27 gennaio, Giorno della memoria, il foglio pubblica un pezzo dal taglio inusuale ma non impertinente. Per non dimenticare.

Mi ha sempre affascinato il colloquio tra Abramo e il Signore in Genesi (18, 22-33). Con coraggio e una certa sfrontatezza, Abramo conduce, con continui rilanci, una brillante trattativa sindacale a favore dei giusti che si trovassero in Sodoma, in vista della sua distruzione. «Faresti tu perire così il giusto insieme con l’empio? Se in quella città vi fossero 50 uomini giusti, li faresti tu perire insieme agli altri?» «Forse ce ne potrebbero essere 40… 30… 20… Non si adiri il mio Signore, parlerò solo più questa volta, forse ce ne potrebbero essere 10. E il Signore rispose: per amor di quei 10 non la distruggerò».

Vicende famigliari di uno storico

Spostiamoci in Germania negli anni Trenta. Hitler è nominato Cancelliere il 30 gennaio 1933, non passano due mesi e viene aperto il campo di concentramento di Dachau, presso Monaco. All’inizio per gli avversari politici interni (comunisti, socialdemocratici, cattolici del Zentrum). Fino al 1939 circa 900.000 cittadini tedeschi furono incarcerati, costretti a emigrare, cacciati dai posti di lavoro, privati dei propri beni, assassinati. Con l’aggressione della Polonia, il 1° settembre di quell’anno, gli episodi di resistenza si spensero quasi del tutto in una società totalmente “normalizzata”.

Ma qualche giusto vi fu e mi soffermerò sulle vicende famigliari dello storico Joachim Fest. Nella vasta e accuratissima biografia di Hitler mostra, tra l’altro, come in tutte le sue opere, una non comune capacità di approfondimento psicologico. Nato nel 1926, scrive un libro di memorie, per il periodo 1933-1945 che viene pubblicato postumo, alla fine del 2006, dal titolo perentorio Io no (Garzanti 2006). O meglio «io non» (Ich nicht) con un richiamo evangelico a Matteo 26,33-35: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Riferimento un po’ ambiguo visto il successivo triplice tradimento di Pietro e la fuga degli altri apostoli…

Una dura coerenza

Cresciuto in una famiglia di origini prussiane, con l’orgoglio minoritario della fede cattolica in un ambiente luterano, il padre di Joachim, Johannes è preside di un liceo di Berlino. Coglie subito la gravità della svolta politica del 1933 e, rifiutando l’iscrizione al partito nazista, il 20 aprile è sospeso dal servizio e licenziato il successivo 1° ottobre per “attività antistatali”. Gli resta una modesta pensione per provvedere alla numerosa famiglia, ma la strada delle ristrettezze e della povertà non sarà evitata. La moglie, su cui grava il peso maggiore di questa scelta di principio, lo prega di piegarsi e adeguarsi alla nuova realtà «per sfamare i figli». «Noi non siamo piccoli borghesi, non rispetto a questi temi (quanto meno)», le risponde Johannes Fest. Una dura coerenza che conserverà fino alla fine del regime, anche quando il figlio Joachim andrà volontario in aviazione, per sottrarsi al reclutamento nei reparti delle Waffen-SS.

Padre e figlio ebbero un violento alterco, e ancora anni dopo Johannes diede di quell’episodio il seguente tacitiano giudizio: «Tu non avevi torto, ma io avevo ragione». Aumenta l’isolamento del capofamiglia; conoscenti e colleghi lo evitano, se lo incontrano cambiano marciapiede. Gli amici ebrei fuggono o spariscono misteriosamente. Il dr. Meyer, amico di famiglia, è totalmente emarginato. Trova sempre più difficile e imbarazzante affrontare la gente. «Mio padre mi chiese di andare da lui, ogni sabato dopo la scuola e fare la spesa per lui». La moglie di Meyer si suiciderà perché «in questo mondo non aveva più voglia di vivere». L’unico compagno di classe ebreo sparisce improvvisamente. Sarebbe fuggito di lì a poco in Inghilterra, con la famiglia. Giusto in tempo.

Intanto cresce la popolarità del dittatore non solo in patria, ma anche all’estero. In Gran Bretagna, Stati Uniti, persino in Francia. «E ciò ‒ commenta Joachim Fest ‒ ebbe conseguenze di gran lunga più devastanti». Poi ci furono le Olimpiadi del 1936, spacciate come Festa della riconciliazione. Venne la notte dei cristalli, 9 novembre 1938: «Mio padre ci narrò delle distruzioni: sinagoghe bruciate, vetrine in frantumi… stoffe dei sarti e libri sparsi come rifiuti per strada». «Chiamò alcuni amici, chiese di vedersi subito. Ma solo i Rosenthal (ebrei) accettarono l’invito».

Il povero dottor Meyer

Paura e indifferenza ormai dominavano la scena. Nel 1941 Joachim e il fratello maggiore Wolfgang sono espulsi dal ginnasio per una caricatura di Hitler incisa sul banco. Continueranno gli studi nella lontana Friburgo, in un collegio cattolico. Rientrati a Berlino per le vacanze di Natale, passeggiando in un parco, perché in casa anche i muri hanno le orecchie, il padre li informa di una notizia data dalla Bbc sui campi di sterminio: «Gli ebrei non venivano assegnati a nuove residenze all’est, bensì assassinati a decine di migliaia». «Prego che quanto ho ascoltato alla radio non sia vero», soggiunse. Negli stessi giorni rivedono il dr. Meyer: «Fuggire, espatriare? No. Avevo fiducia nella cultura del popolo tedesco. Un popolo che aveva dato al mondo Goethe, Schiller e Lessing, Bach e Mozart, e tanti altri sarà incapace di comportarsi da barbaro. Beh, concluse, vede come ci siamo sbagliati?!». Sparirà dal suo domicilio nel 1943: «Temo il peggio per lui», sarà l’amaro e tragico commento di Johannes Fest.

Gli eventi precipitano. Il fratello maggiore di Joachim è inviato sul fronte orientale e muore di polmonite a 20 anni, dopo essere stato rinviato in prima linea da un comandante criminale: «Con la pistola in pugnò gli urlò vigliacco, disertore, renitente». La madre, che lo visitò morente in ospedale, raccolse le sue ultime parole: «Non preoccuparti, quel po’ di vita che ho vissuto era troppo breve per fare grandi danni». Anche Joachim è chiamato alle armi, però ad ovest, dove è fatto prigioniero da un reparto americano: «“Hands up, boy, come on!”. Il soldato che mi aveva catturato gettò nella spazzatura tutti i libri che portavo con me nello zaino. Alle mie richieste , ci ripensò, silenzioso, e me ne restituì tre. Le poesie di Goethe, le Marmorklippen (Sulle scogliere di marmo) di Jünger e L’autoritratto di Weinheber». Il terzo fratello, Winfried, di poco più giovane, anch’egli arruolato, in vista di una missione suicida, riuscì a salvarsi disertando fortunosamente negli ultimi giorni di guerra. Il padre Johannes fu invece fatto prigioniero dai russi alla liberazione di Berlino. Rilasciato molti mesi dopo, ritornò a casa irriconoscibile e prostrato nel fisico e nell’anima.

L’enigma della dittatura

Nel dopoguerra Joachim Fest che amava definirsi «italiano nel cuore, inglese nella testa», prima che storico fu giornalista televisivo e curò per 30 anni la pagina culturale del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung. Avrebbe voluto approfondire il rinascimento italiano, ma il suo passato lo obbligò a «indagare, per tutta la vita, l’enigma della dittatura nazista». Non amava i fondamentalisti che definiva «teste di calcestruzzo, accecate ideologicamente». Non amava le ideologie dominanti, di destra o di sinistra e polemizzò vivacemente con Günter Grass. Si collocava su posizioni liberal-conservatrici, venate da un profondo pessimismo: «L’uomo è un animale rapace governato da una forza primitiva – il male – contro la quale la civiltà erige un labile recinto di difesa che può cadere in ogni momento». Vista la temperie che stiamo vivendo, mi vien voglia di dargli perfettamente ragione.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy