Quest’anno, dopo le polemiche di sabato 20 sul monologo di Antonio Scurati “censurato” dalla Rai, ci pare particolarmente importante celebrare i 79 anni del 25 aprile. Lo facciamo attraverso la rilettura di uno degli ultimi libri di Nuto Revelli, Il disperso di Marburg.

«Nie wieder! nie mehr!» («Mai più!»): era lo slogan scandito negli anni ’80 in molte città tedesche il 1° settembre. In memoria e condanna imperitura dell’aggressione tedesca alla Polonia in quella notte del 1939 che segnò l’inizio della seconda guerra mondiale. Nel ricordo di molti di noi più vecchi ci sono alcune foto sui libri di storia: un reparto tedesco che rimuove la sbarra di confine e gli incendi a “Westerplatte” nei pressi di Danzica, colpita dal mare.

«Cortei bellissimi, pieni di entusiasmo e fantasia. Erano manifestazioni quasi spontanee, per questo così belle. Oggi invece niente. Qualcuno dei nostri politici dirà quattro parole insulse. I tempi sono drammaticamente cambiati». Così lo storico tedesco Christoph Schminck-Gustavus in una lettera del 1 settembre 1993 a Nuto Revelli. Trent’anni dopo sembrano scritte ieri, con grande amarezza, nel clima cupo che ci circonda.

Se è esistito un tedesco “buono”, voglio conoscerne la storia

Christoph, professore di storia all’Università di Brema, e Nuto si erano conosciuti nel 1987 a un convegno sui deportati italiani nella seconda guerra mondiale, tenutosi a Torino nell’autunno di quell’anno. Già da qualche tempo, allora, Revelli aveva iniziato una ricerca che mirava all’identificazione di un ufficiale tedesco (o polacco, o cecoslovacco?) morto in un’imboscata ad opera di un gruppo di partigiani (o di sbandati?) in località S. Rocco, nei pressi di Cuneo, nell’estate 1944. Era il compimento di un lunghissimo e doloroso percorso psicologico: «Li odiavo a tal punto, i tedeschi, che al solo vederli mi saliva il sangue alla testa. Li consideravo, sbagliando, gli unici responsabili del nostro disastro» (Al ritorno della terribile ritirata di Russia, p. 75). «Non provo alcuna pietà nei loro confronti. Ma – continua Revelli, mutando prospettiva – se è esistito anche un solo tedesco diverso dall’immagine che io mi ero fatto di loro, vorrei proprio conoscerne la storia» (p. 35). Il nemico così si umanizza, torna singola persona, in cui riconoscersi e specchiarsi. Ne parla il figlio Marco in un profondo e toccante ricordo, nel ventennale della morte di Nuto: «La lama di ferro che… tra il ’40 e il ’45, è caduta a dividere violentemente la storia, ha spaccato in due anche la sua biografia personale, in un “prima”, l’infanzia, l’adolescenza vissute all’ombra vergognosa di un regime dispotico e fasullo… e in un “dopo” dedicato al tentativo di rimediare a quei guasti e a quelle colpe inespiabili». In mezzo, il punto di rottura fu la catastrofe della ritirata di Russia. «Allora morì anche il tenente Revelli, ufficiale modello… e nacque una nuova persona, quella che pochi mesi dopo, l’8 settembre, sarebbe salito in montagna a fare il partigiano» («La Stampa» 2 febbraio 2024). Come non riferirsi ad altri episodi analoghi? Javier Cercas ne I soldati di Salamina ricostruisce la vicenda di Antoni Miralles, comunista repubblicano, che durante la guerra di Spagna salva la vita all’intellettuale franchista Rafael Sànchez Mazas. «Mirall, osserva Cercas, in catalano significa specchio. Ecco Miralles ha visto nel nemico se stesso nello specchio». Oppure al film di Roman Polansky Il pianista in cui l’ufficiale della Wehrmacht Wilm Hosenfeld, incontra Wladislaw Szpilman, ebreo polacco che si nasconde tra le macerie di Varsavia. Gli chiede cosa facesse nella vita civile: «Ich bin ein Pianist, ich war ein Pianist» («sono un pianista, anzi ero un pianista») e trovandosi di fronte a un pianoforte, in una stanza diroccata, gli si rivolge con un educato Lei, anziché con il “tu” autoritario e sconveniente tra estranei, invitandolo a suonare, «spielen sie».

Nuto Revelli ha già raccolto qualche “fonte orale” talora contradditoria , confusa nel ricordo dei pochi superstiti, vuole arrivare alle “fonti scritte”, cioè agli archivi. In questo sarà decisivo l’impegno e la passione di Christoph, insieme a un gruppo di altri validi storici, italiani e tedeschi. Ne risulta un resoconto appassionante in forma di diario che dura ben sei anni e ha per titolo Il disperso di Marburg (Einaudi 1994). Vengono seguite varie piste, tra scoperte esaltanti, talora casuali, e cocenti delusioni. Una prosa bellissima e incalzante, tra telefonate, lettere con preziose informazioni desunte dagli archivi, la classica ricerca dell’ago nel pagliaio, come sostiene ad un certo punto l’autore: «Sì, però in un pagliaio tedesco… ancora una volta prendo atto che gli archivi tedeschi non sono imbalsamati come i nostri» (p. 143). Nonostante le immani distruzioni belliche, infatti, il solo Deutsche Dieststelle WASt di Berlino conserva milioni e milioni di documenti relativi ai 3.000.000 di soldati caduti e ai 1.200.000 dispersi, e agli oltre 3.000.000 di civili morti in varie circostanze durante la guerra.

Una figura incerta

Ed ecco prendere forma la figura di Rudolf Knaut, di famiglia borghese, un fratello caduto in Russia, studente universitario in legge, 24 anni, nato a Marburg nel 1920, sottotenente di complemento. La foto rivela uno sguardo sensibile, è alto e magro, capelli biondi ondulati, «Mi dà l’impressione di un bravo ragazzo» (p. 137). Catturato e ucciso a freddo da alcuni partigiani il 14 giugno 1944, durante un’uscita a cavallo nei pressi della caserma di San Rocco. Nuto riesce persino ad avere un colloquio con due membri della banda. Di cui, tra le righe, condanna il comportamento. «Osservo a lungo la fotografia di Rudolf, e provo una forte emozione. Morire in combattimento fa parte del ‘gioco’… ma morire quando meno te l’aspetti, in un ambiente che giudicavi più di pace che di guerra, è una beffa atroce. Quanto è stupida e assurda la guerra!» (p. 137).

Non si realizza però la speranza di Nuto, quella di trovare il “tedesco buono”, un soggetto come il caporalmaggiore della Marina Rudolf Jacobs che diserta nel 1944 unendosi ai partigiani della Brigata Garibaldi Muccini e muore presso Sarzana durante un tentato colpo di mano contro una caserma dei repubblichini. Ne ha tracciato recentemente un efficace ritratto Carlo Greppi che lo ricorda insieme ad altre centinaia di tedeschi e austriaci che «rinnegarono la legge dell’’onore’, per seguire quella della coscienza». Il tenente Knaut resta una figura grigia. Svanisce presto il ricordo leggendario del “cavaliere solitario” che salutava educatamente i contadini e parlava affabilmente con i bambini. Non risulta essere stato iscritto al partito nazionalsocialista «Forse era veramente un buono, forse non era nazista e odiava la guerra, ma avrebbe potuto essere anche diversamente» (p. 151). Faceva però parte di un battaglione impiegato contro i partigiani, quindi anche contro i civili. Poteva essere tenuto a eseguire ordini di fucilare ostaggi ed incendiare case. «Insomma anche lui era un ingranaggio della macchina bellica tedesca messa al servizio dei nazisti» (p. 151).

Il corpo di Knaut non fu ritrovato dal comando tedesco che abbandonò le ricerche dopo pochi giorni. Si facevano anche le ipotesi  che avesse disertato oppure che fosse stato catturato vivo. Ciò salvò i civili da una rappresaglia che avrebbe portato alla sicura fucilazione di innocenti e alla distruzione di case nei paesi vicini. Alcuni però sapevano: il corpo abbandonato seminudo e insepolto fu trascinato a valle in autunno dalla piena del fiume Gesso. Non rimase che un brandello di maglia bianca appesa ad un arbusto. «Come il segnale di un destino crudele – conclude Revelli nell’ultima frase dell’ultima pagina – di una vita sprecata, di una resa».

Mi corre l’obbligo di ricordare in chiusura la grande amicizia che caratterizzò i rapporti tra Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern e Primo Levi. I primi due accomunati dalla ritirata di Russia e il terzo dall’esperienza di Auschwitz. Tra poco saranno 79 anni dal 25 aprile 1945, una data su cui non potrà mai esserci memoria condivisa, ma che ha aperto una grande prospettiva di pace, almeno in Europa e di cui le generazioni successive non possono che essere infinitamente grate a uomini come Nuto, Mario e Primo. E a tanti altri, conosciuti o ignoti, che fecero scelte coraggiose e ne diedero testimonianza in tempi assai difficili.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy