Si riprende il tempo ordinario dalla X domenica: il che significa che, in seguito alle solennità della Trinità e del Corpus Domini spostato alla domenica seguente, sono state “bruciate” le letture della VII, VIII e XIX domenica fra l’anno: così non è stato letto l’intero secondo capitolo di Marco, con tutta la controversia sul sabato a cui facciamo un cenno. In aramaico barnasha [con il prefisso bar che significa «figlio», come il cieco Bartimeo, cioè figlio di Timeo (Mc 10,46)] significa sì alla lettera «figlio dell’uomo» ma veniva usato e capito dalla gente nel senso di «uomo» tout court, come nel vangelo odierno in Mc 3,28: «Tutto sarà perdonato ai figli degli uomini», cioè agli uomini. Solo in greco è chiara la distinzione tra uomo (anthrôpos) e figlio dell’uomo (uios tou anthôpou), non nella lingua di Gesù. Perciò pensando in aramaico potremmo rendere il celeberrimo Mc 2,27s: «Il sabato è fatto per l’uomo (barnasha) e non l’uomo (barnasha) per il sabato! Perciò (il figlio del)l’uomo (sempre barnasha) è signore anche del sabato»; cioè anche noi nella scia di Gesù possediamo questa signoria sulla Legge (mosaica). Si noti che Gesù non osserva il Sabato, attacca il tempio, ma non disdegna le feste (delle Capanne, di Pasqua…); e che la fonte Q chiama Gesù ancora «figlio dell’uomo» (ad es. «il figlio dell’uomo (cioè io) non ha dove posare il capo» in Lc 9,58 e Mt 8,20), senza avvertire alcun contrasto col titolo di «figlio di Dio».

Il vangelo odierno inizia col fatto imbarazzante che i familiari di Gesù lo vadano a prendere per riportarselo a casa in quanto lo ritengono “fuori di sé”. Questo corrisponde alla realtà storica, in cui Gesù è stato rifiutato dalla sua famiglia, tanto che ne ha trovato una adottiva a Gerusalemme, quella del discepolo che Gesù amava (che si chiamava Giovanni, ma non è il figlio di Zebedeo). I suoi fratelli sono completamente assenti e ostili nel ministero pubblico (cfr Gv7,5): solo dopo la Pasqua sbuca dal nulla il fratello carnale Giacomo a capo della comunità di Gerusalemme, con un’autorità pari se non superiore a Pietro. Ma anche la madre (a parte Cana) è estranea al ministero di Gesù, assente nella passione, nella deposizione e pure nella Pentecoste, checché ne pensi l’immaginario collettivo: la scena di Gv 19,25-27 sotto la croce è un’allegoria storicizzata della madre Chiesa. Nella prima metà del II secolo Giovanni sembra non conoscere ancora il nome «Maria», perché la chiama sempre la «madre di Gesù».

I vangeli dell’infanzia hanno ribaltato tutto, facendo leggendariamente della “vergine” un personaggio centrale, poi entrato nella devozione popolare sino all’invenzione dello Stabat Mater, e identificandola con la donna di Genesi 3,15 (prima lettura di oggi) che schiaccerà la testa dell’enigmatico serpente.

Il Marco II (2ª ediz), scandalizzato dai familiari, ha spostato sugli scribi l’accusa ben più pesante di essere al servizio di Beelzebul (3,22.30), il capo dei demoni, scongiurando che siano i parenti a pensare una cosa del genere: ossia Gesù per i familiari sarà anche mezzo matto, ma non è un indemoniato.

Al che segue la difesa di Gesù sul fatto che un regno non può essere diviso in se stesso: Satana non può combattere contro Satana. Ma prosegue con lo strano detto violento sull’uomo forte [e ben armato in Lc 11,21s a cui bisogna strappare l’armatura] che occorre legare per saccheggiargli la casa. Cioè l’uomo forte è Beelzebul o Satana; e Gesù non solo non è il suo luogotenente, bensì il suo “nemico” ancor più forte in grado di prendere il sopravvento, imbavagliarne la potenza e vincerlo.

La fonte Q (trascritta in “fotocopia” da Lc 11,24-26 e Mt 12,43-45), prosegue con lo spirito immondo che non molla; si ritira temporaneamente ma poi torna con altri sette spiriti peggiori di lui (cioè con una potenza maligna infinitamente superiore). Ciò significa che la battaglia contro il male e l’ingiustizia è molto dura, non esaurita una volta per tutte in un combattimento finale risolutivo. Può addirittura avvenire un accrescimento della “malignità” (coi 7 spiriti più forti del primo) come oggi nell’aumento esponenziale della violenza bellica. Come Matteo 12,28 ha demitizzato il dito di Dio con cui Gesù in Luca 11,20 scaccia i demoni (= il regno di Dio è giunto, per cui un altro mondo è possibile) con «per mezzo dello Spirito», così abbiamo demitizzato il demonio interpretando i 7 spiriti più forti del primo come male.

Ho la sensazione che Q (se non Gesù stesso) ironizzi sull’andirivieni degli spiriti immondi; comunque si è viepiù instaurata una relativizzazione degli esorcismi che sfumano sino a sparire nel quarto vangelo, in cui ci sono solo guarigioni. Occorre abbandonare la demonologia col suo satanismo diabolico cogliendone il nucleo nella lotta indefessa contro la malvagità umana.

Il racconto originario del Marco I riprende a partire dal v. 30, con Gesù che reagisce al «disprezzo dei suoi» in maniera reversibile snobbandoli: a quelli che gli riferiscono «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle ti cercano» (Gesù ha avuto 4 fratelli e un numero imprecisato di sorelle, cfr. Mc 6,3 che leggeremo nella XIV domenica), Gesù risponde «Ma chi sono mia madre e miei fratelli?», ritenendo invece tali quelli che gli stavano seduti attorno. Il vangelo si conclude con la tipica aggiunta moralistica del Marco II: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre»

Nel mezzo del vangelo odierno troviamo il masso erratico sul perdono dei peccati. In Marco è assente il verbo «peccare» (amartanô), e in quello più originario del Marco I (1ª ediz.), non compariva addirittura il sostantivo «peccato» [amartia], con la sola eccezione del battesimo perdonante di Giovanni (Mc 1,4s), a cui la gente accorreva confessando i propri peccati. Il Marco II esterrefatto si è chiesto: solo il Battista perdona e Gesù niente? L’ha quindi inserito una prima volta nel cap. 2, dove il racconto del paralitico [anche questo non letto perché nella VII domenica] scorreva lineare con la sola guarigione saltando dall’attuale v. 4 all’11 con «Disse al paralitico»: «Alzati e cammina». Ha duplicato «disse al paralitico» [per gli inserimenti si usava raddoppiare il verbo dire o vedere] anticipando il primo al v. 5: «ti sono perdonati i tuoi peccati», ma poi pasticcia nel v. 11 quando si ricongiunge al testo precedente con la sutura maldestra: «disse al paralitico: dico a te…». Così il Marco II ha corso il rischio di insinuare un legame causale fra peccato e malattia, escluso da Gesù; non credo fosse nelle sue intenzioni in quanto voleva solo inserire almeno una volta il perdono dei peccati (a fronte delle 200 volte in cui ricorre nel NT: 150 volte il sostantivo “peccato” e 50 il verbo “peccare”). Anzi due, perché lo fa una seconda volta nel vangelo odierno: con l’unica eccezione della bestemmia (verbale) contro lo Spirito Santo (una cosa peraltro rarissima), tutte le colpe (qui non usa amartia ma due volte in 3,28s amartêma in riferimento ai peccati anche antichi) saranno perdonate.

Agli ultra-conservatori che osteggiano l’esegesi critica conviene accettare che queste non siano parole di Gesù bensì del Marco II, che pensa ovviamente all’afesis battesimale (degli adulti), con remissione totale (peccati, colpe, pene di una vita); tanto che qualcuno ha tentato poi di fare il furbo, posticipando il battesimo verso la fine della sua esistenza per andare diritto… in Paradiso. Se i fondamentalisti lo vogliono a tutti i costi attribuire a Gesù, che non pensava certo al battesimo, la situazione (per loro, non per me) sarebbe imbarazzante: se proprio tutte le colpe saranno assolte, ciò significherebbe che l’inferno è… praticamente vuoto!

Sempre in vena di battute, cito l’aneddoto del “Vangelo degli Ebrei”, che è andato perduto ma il bravo Girolamo ce n’ha salvati alcuni brani; in uno di questi Maria dice ai suoi numerosi figli: «Andiamo tutti quanti a farci battezzare da Giovanni per il perdono dei peccati». Al che Gesù, sentendosi senza macchia, ribatte: Quid peccavi? In che cosa ho peccato? Nisi forte… a meno che non me ne sia accorto!

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