Strettamente legato e continuativo rispetto al vangelo di domenica scorsa (Gv 15,1-8) è quello odierno di Gv 15,9-17; che tuttavia contiene altre stucchevoli aggiunte di Re2 (autore della 2ª ediz. del vangelo) sui comandamenti, di cui abbiamo già ampiamente parlato nell’ultimo commento.

Infatti Ev1 (primo evangelista) è l’autore dei vv. 9.13.14a.15.16a, in cui il rimanere nell’amore di Gesù significa restare nella fede che Gesù, quale parola liberante di vita, via via accoglie. Ma la profonda coappartenenza nella Grazia (come la vite e i tralci) viene oscurata dalla concatenazione morale fra il rimanere in tale amore e l’osservare i comandamenti nei vv. aggiunti da Re2: 10-12.14b.16b.17; soprattutto nel 14b il dono di essere amici di Gesù viene limitato da una condizione legalistica che ne rovina il senso e il contesto. Secondo il v. 15s i discepoli sono amici di Gesù come confidenti, da lui scelti e “graziati” con la conoscenza del Padre; invece secondo il 14b (e gli altri versetti suddetti) tale dono dipende dall’adempimento di un atto morale (stessa cosa nel vangelo di domenica scorsa in Gv 15,1-3.6), fra l’altro con l’aggiunta esagerata che tutto quello che verrà chiesto al Padre sarà concesso (Gv 15,16b).

Per maggior chiarezza trascriviamo in sequenza solo le stupende parole di Ev1, senza le “interpolazioni” del suo successore, che non ha capito (o non ha voluto capire nel suo moralismo già clericale) la bellezza del suo predecessore: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici [stop, senza il comando]. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (9.13.14a.15.16a). Mentre nei sinottici Gesù è a volte un po’ “scorbutico”, i capp. 14-17 di Giovanni sono il suo discorso in assoluto più tenero nei vangeli.

Centrale è il fatto di non essere più servi, perché Gesù aveva solo amici e amiche. La struttura dell’amicizia (filia) ci prepara a quella dell’amore (agapê) nella seconda lettura. Qualche autore del passato, quando si parlava latino, ha sottolineato come nell’amicizia non ci siano ut finali [ut è la particella che introduce la proposizione finale, che inizia con «affinché» o «per» seguito dall’infinito]. Cioè l’amicizia è gratuita: non si è amici in previsione di futuri vantaggi; certo se l’amico è in difficoltà io l’aiuto, ma non per il calcolo di posteriori guadagni, contraccambi…

Nell’amicizia invece ci sono dei grandiosi ut consecutivi [la medesima particella introduce anche la proposizione consecutiva, col «cosicché», ne consegue che…]. Ossia subentra certo l’aiuto reciproco, ma come conseguenza del rapporto, gratis, senza secondi fini, più o meno nascosti. Tenendo presente anche il vangelo della scorsa domenica, in Ev1 il portar frutti è una conseguenza dell’amicizia con/in Gesù, addirittura con l’idea di una crescita (come nel v. 16: «andiate e portiate frutto»; un ut consecutivo), mentre in Re2 i frutti sono una richiesta legale, una pre-condizione severa per restare in Gesù (ut finale).

L’amicizia (filia) ci introduce così nella stupenda 2ª lettura con la celebre definizione che «Dio è amore [agapê, non eros; hesed nell’ebraico biblico]» in 1 Gv 4,8 e ripetuta in 4,16. In passato alcuni autori, come Karl Barth, si son chiesti se si poteva invertire il soggetto col predicato, ossia «L’amore è Dio» [con l’annotazione spiritosa che agape si rapporta ad “eros” come Mozart a Beethoven. Non oso pensare a cosa ne direbbe Mozart…]. Si era soliti rispondere, di primo acchito, negativamente, poiché si correva il rischio che il soggetto-Dio svanisse, risolvendosi e riducendosi all’amore umano, più in generale a una dimensione della nostra natura, compresa un’intelligenza (a-personale) che pervade l’universo; così ad es. pensava Einstein nella scia di Spinoza.

La definizione identitaria fra Dio e amore non è isolata, ma immersa nella sinfonia della prima lettera, come in quelle musicali col tema principale sviluppato in più variazioni ‒ da maestri quali i suddetti Wolfgang e Ludwig. Ad es. subito dopo: «Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita» (4,9); purtroppo un glossatore (neanche Re2) ha ripetuto che Dio l’ha mandato come vittima di espiazione (ilasmos) per i nostri peccati. Il termine ricorre solo due volte nel NT unicamente in questa lettera: qui in 4,10 e in 2,2; l’autore tardivo ha voluto inserire di forza il sacrificio espiatorio «per tutto il mondo», di riparazione, soddisfazione, riscatto, redenzione che dir si voglia.

La sinfonia inizia già in 1ª Gv 3,14: «Siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte». Questo ci consente di chiarire la distinzione tra la forma e il contenuto del sentimento amoroso. In genere si pensa alla sua forma: dedizione, abnegazione, bontà, generosità ecc. (il che va benissimo). Ma si tende a dimenticare il suo contenuto: ossia verso dove punta, verso quale traguardo il donarsi si incammina? In ogni autodeterminazione a favore degli altri avviene (questo è il contenuto) quella particolare “lotta” fra essere e non-essere a favore dell’essere, di vita e morte a favore della vita che, in quanto dialettica pacificata, chiamiamo «amore».

Stiamo riprendendo quanto già detto più ampiamente nel vangelo di Pasqua parafrasando Eberhard Jüngel, Dio, mistero del mondo, Queriniana-Brescia 1982, e «L’essere di Dio è nel divenire», Gottes Sein ist im Werden, Marietti 1986. Orbene Dio è questo contenuto amoroso [noi amiamo, abbiamo amore.., ma non siamo l’amore] in unità col crocefisso e in contatto con la caducità. Invece nella tradizione metafisica la morte di Gesù di regola non aveva alcun significato per il concetto di Dio in se stesso, per la sua essenza, in quanto la metafisica vietava di rappresentare Dio come sofferente o addirittura di pensarlo assieme ad un morto. Anzi Dio e la morte di Gesù erano collegati solo come antitesi, perché nella sua assolutezza Dio era l’essere invulnerabile, impassibile e immutabile. Ma allora si pone la domanda se un tale Dio, a cui non è permesso di essere umano, meriti di essere chiamato divino. Proprio per superare almeno in parte e “disperatamente” la suddetta antitesi oltre allo smacco della crocifissione, Gesù divenne forzatamente la vittima di espiazione (come detto sopra) in un progetto orchestrato dalla volontà divina che ha pianificato la propria auto-soddisfazione in modo cruento (placato fra l’altro in modo masochista dal sangue del suo stesso figlio: sic). Le cose stanno molto diversamente: Dio, sperimentando su se stesso nella passione di Gesù il possibile annientamento, prende parte alla suddetta lotta-dialettica (fra vita e morte in cui consiste l’amore) che non contraddice la sua divinità, anzi ne è il compimento. Il Dio-amore non si eleva infinitamente al di sopra di noi, ma si rivela come il creatore sottoposto all’attacco del nulla! Il Dio traboccante ed eternamente ricco è una vittoriosa riduzione del nulla, tollerando anche la negazione della morte senza soccombere. Le deduzioni sono infinite: ad es. subito dopo la ripetizione dell’identità fra Dio e (l’)Amore in 1ª Gv 4,16, leggiamo: «chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». Polemicamente, se due omosessuali, divorziati, conviventi (o coppie cosiddette irregolari) si amano, Dio dimora in loro e nella relazione. I comandamenti, precetti, divieti, pregiudizi si sciolgono come neve al sole. Molti ammirati, anzi entusiasti della prima grande lettera giovannea, se la dimenticano poi nella prassi.

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