Non sono un critico teatrale come Gramsci, né un frequentatore come altri amici, ma quando viene Lucilla Giagnoni corro a sentirla-vederla. Questa volta, all’Astra, su Apocalisse, che significa Rivelazione, lo sapevamo, ma anche Ri-velazione. Lucilla apre le parole, come spaccare una noce, e ne escono zampilli di significati, evocazioni, atti sonori. Ma le parole hanno ancora altro, non detto, da udire. «Usciti dall’Egitto, vuoi farci morire di sete?», mormorava il popolo, minacciando Mosè. E noi pure, oggi, da un duro Egitto cerchiamo di uscire. Ma c’è deserto, non c’è acqua. «Colpisci la roccia col tuo bastone ‒ udì Mosè, perché era un uditore ‒ e ne uscirà acqua». Così fu. Avevano tentato il Signore dicendo: «Il Signore è o non è in mezzo a noi?». Roccia è quel silenzio mormorato di paure che ci ronza addosso, dai teatri di guerra, come lo sciame smarrito, destinato a morire.

E Lucilla ne trae un getto di parole, una cascata fresca, incarnata nei gesti. Parole che dicono mistero, anche minaccia, poi rivelazione e ri-velazione. Da Edipo a Mosè a Giovanni, nascono bambini (tutti siamo figli, tutti), salvati dalle acque, che diventano rivelatori. Le parole chiuse, dure, sono parole aperte, e vedi che Amen non chiude, ma conferma, abbraccia e spalanca. Lacrime dolci, commosse, mentre applaudiamo. Parole-fiducia, suonate come note su una scala di estremi, e non finite, non richiuse.

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