Mentre i cartelli stradali indicavano lo svincolo per Battipaglia, la conversazione scivolò sulla politica.

«Già due anni!», esclamai, osservando il giornale del passeggero davanti a noi.

«E molti ne seguiranno» notò Mara con una smorfia che d’un tratto abbuiò il suo sorriso. Forse per la sorpresa dell’incontro – sul Freccia Link in partenza da Salerno – sino ad allora mi era parsa radiosa.

«Non è detto», obiettai. «E d’altronde – aggiunsi – non si può darla vinta a Putin».

«Certo che no”, consentì mentre riponeva nella borsa la sciarpina indiana. «Lo zar vuole restaurare l’impero, infischiandosene dei diritti umani. Il problema è se ciò valga per noi una guerra».

«Oramai, la guerra già c’è», notai rassegnato, mentre armeggiava nello zainetto alla ricerca del caricabatterie.

Spalancò gli occhi a mandorla: «Mezzo milione tra morti e feriti, divisi in parti uguali tra gli uni e gli altri. Se ci pensi è impressionante. Ma più impressionante è che siamo appena all’inizio».

Nubi scure s’addensavano su Eboli. «Che cosa te lo fa credere?», domandai, cercando di nascondere l’irritazione per quello che mi appariva un eccesso di pessimismo. Anzi, di catastrofismo.

L’irritazione, invece, trapelò nel tono della sua risposta. «Ogni mese avanziamo d’un passo verso il precipizio, eppure fingiamo di non accorgercene».

Il pensiero corse alla mia amica Monica, che aveva trascorso mesi lungo il fronte e ci aveva pure scritto un libro. «Non mi pare proprio che scarseggi l’attenzione e l’informazione. Almeno da noi, perché in Russia è sicuramente diverso».

«Per carità, Nico ‒ mi interruppe. Non c’è paragone, lo so». Ma dopo una pausa riprese: «L’aria di guerra però si sente, anche da noi. Quante volte hai visto intervistare un ucraino filorusso? Eppure ce n’erano milioni».

E aggiunse, quasi sottovoce: «Gli ospedali strapieni di soldati mutilati e agonizzanti non ce li fanno vedere, né gli uni né gli altri, perché non servono alla propaganda».

Mentre riprendeva a smanettare sullo smartphone, ripensavo al mio convegno romano. Gli archivisti riuniti in San Filippo Neri. Il collega di Terni e la moglie polacca, preoccupati per gli amici di Leopoli.

Mi sentii in dovere di riprendere le loro esortazioni. «La libertà e l’indipendenza non sono valori astratti, sono cose concrete. Non si può transigere: se necessario vanno difese con le unghie e coi denti».

Mara si limitò ad annuire. Le era tornata l’espressione pensosa che di lei mi piaceva e che mi aveva sedotto in anni lontani, durante il corso di filosofia sui banchi della Sapienza.

«Vedi, Nico, la domanda non è se ci siano buoni motivi per combattere. È se sia sensato rischiare di suicidarci…per ottime ragioni. Distruggerci a fin di bene».

Chissà perché, ascoltandola, cominciavo a notare che era elegante vestita di nero, con la frangia negli occhi e due piccoli brillanti alle orecchie.

Non tardai a esprimerle la mia perplessità. «Mi auguro che tu esageri. E mi è difficile accettare che la soluzione sia la resistenza inerme, che assomiglia a una resa».

«Ma non lo è – replicò. Se investissimo nella preparazione di una difesa nonviolenta un decimo di ciò che investiamo in armi, otterremmo risultati migliori con costi minori».

«Tuttavia così non si è fatto, almeno sinora», obiettai. E aggiunsi, come una concessione: «Purtroppo».

Il paesaggio appenninico si faceva più aspro. Scorreva rapidamente sotto i nostri occhi, mentre gocce di pioggia rigavano il finestrino.

«Che non si sia fatto non significa che non sia fattibile ‒ osservò. E poi, sarà per una deformazione professionale, ma a mio parere dipende dalla nostra concezione dell’uomo».

«Ovvero?», domandai incuriosito.

Alzò la voce, mentre all’esterno le raffiche dell’acquazzone s’infittivano: «Se credi che l’uomo possa cambiare e l’umanità possa evolvere, devi puntare su questo cambiamento e costruirlo. Solo una nuova coscienza può salvarci”.

«Altrimenti?», le chiesi. «Altrimenti continuiamo a pensarla come Machiavelli: la natura umana è immutabile, meglio essere temuti che amati, si dimentica prima la perdita del padre che quella del patrimonio».

Già, Machiavelli. Mi sentii in dovere di spezzare una lancia in suo favore: «Difficile dargli torto quando dice che siamo deboli ed esposti a infinite minacce. E perciò irrimediabilmente egoisti e violenti e cattivi…».

Mi interruppe. «Certo, ma attento… Come ci ricorda il buon Spinoza accanto alla natura ferina c’è una natura cooperante. Vediamo che c’è anche nelle piante e negli animali. Ed è alla base del diritto. E di tutte le civiltà».

Restammo un po’ in silenzio. Dietro di noi avevano preso a conversare due anziani signori. Erano zampognari di Auletta e parlavano della fiera del carciofo bianco, prevista per la primavera.

«Comunque – ripresi – per scongiurare le guerre non possiamo aspettare che cambi la mentalità. Cambiare i cuori e le teste richiede tempo e noi non l’abbiamo. Bobbio diceva che l’atomica è arrivata …troppo presto».

«E allora?», m’interrogò con aria sorpresa, fissandomi con la massima concentrazione delle pupille grigie.

«E allora, in attesa di tempi migliori, dobbiamo farci bastare l’equilibrio delle forze. Metternich, Kissinger. Ma anche, dal basso, Sant’Egidio. Il realismo paziente della diplomazia».

Si rabbuiò. Poi vidi la delusione disegnarsi sul suo volto. «Ti sapevo minimalista, Nico, ma non mi convinci. Proponi un mondo senza princìpi né ideali, che non può essere un mondo di pace».

«O forse – la corressi – soltanto un mondo senza princìpi né ideali può evitare, oggi, la guerra. Che spesso è alimentata proprio dal contrasto dei princìpi e degli ideali».

Un cantiere lungo la strada ci bloccava in una lunga coda. In un prato lì accanto doveva esserci un maneggio. Sotto grandi querce due cavalli osservavano le corse di un giovane puledro.

Mara scattò una foto abbassando il finestrino. Entrò una ventata di freddo. Aveva appena smesso di piovere.

Insistetti. «Vedi, se la guerra è il male peggiore, e ai nostri tempi lo è, l’importante è preservare il futuro». E aggiunsi, infervorandomi: «Non sottovalutare la diplomazia. Trattare sempre e con tutti. Non abbandonare mai il negoziato e rilanciarlo ogni giorno nei modi opportuni. Che vuol dire non demonizzare nessun interlocutore, tenere aperte le comunicazioni, valorizzare i possibili mediatori. E patteggiare ad oltranza. Perché nella storia tutto è patto e contratto, persino quello tra Dio e il suo popolo».

Volevo ancora dirle dell’Onu e della conferenza di Helsinki… Ma ormai Mara non mi ascoltava. Allo squillo dello smartphone aveva risposto con il suo inconfondibile: «Siii…». E dietro di noi uno zampognaro russava, mentre il bus si avvicinava a Potenza.

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