Hugo Von Hofmannsthal, nell’aprile del 1912, scrive dal buen retiro di Rodaun, allora comune autonomo e oggi quartiere periferico di Vienna: «La nostra vecchia Austria è assediata da ombre nere, da torbidi presagi». Ne darà un quadro retrospettivo Ernst Lothar, tra il serio (un po’ tragico) e il faceto, nelle pagine della Melodia di Vienna, circa 30 anni dopo: «Cos’è un austriaco? Non esiste. È una definizione inventata dagli Asburgo per giustificare la loro politica patrimoniale!  L’austriaco che parla tedesco come tu e io, lo si considera il “vero” austriaco ed è convinto che il ceco o l’italiano o il polacco provi gli stessi sentimenti e sia altrettanto affezionato alla città imperiale e al Wurstelprater e al valzer e al vino nuovo e al cuore d’oro di Vienna e a chi sa quali altre scemenze! Che idiozia! L’unica cosa alla quale pensano il polacco di Przemysl (pronuncia qualcosa come Scemisciol, n.d.r.) o l’italiano di Trento o il boemo di Budweis è: come faccio per l’amor del cielo a uscire da questa maledetta prigione…» (pp. 258-59).

Ma torniamo al 1912. I popoli del grande impero sono in subbuglio, ma anche i nemici esterni non scherzano. «I russi fremono, impazienti di saltarci alla gola». Hofmannsthal riparla delle sue ansie nel gennaio del 1913: «Vedo un’Austria confusa, figliastra della storia, così sola nel mondo»; e nel giugno del 1914: «Sono preso da un’angoscia per l’Austria, per l’avvenire, per i nostri figli». Il governo sta organizzando il viaggio dell’arciduca ereditario Francesco Ferdinando a Sarajevo.

Andare incontro alla morte, volontariamente

Mi sono sempre chiesto che cosa motivi il volontariato in guerra. La scelta cosciente e libera di andare incontro alla morte, come si dice con espressione retorica, nel fior degli anni. Molti intellettuali austriaci vengono coinvolti dalla guerra. Gilberto Forti ce ne restituisce un quadro accurato e vivace ne Il piccolo almanacco di Radetzky (Adelphi 2010). Prendiamo il caso di Ludwig Wittgenstein. Lascia il fiordo di Skiolden in Norvegia, dove vive come un eremita ed è arruolato, benché, con l’asma che lo affligge da quando era bambino, avrebbe potuto evitare il fronte. Polonia, Galizia, Volinia e Bucovina sul fronte orientale, poi dopo la rivoluzione russa, l’altipiano di Asiago. Fa carriera ed è nominato ufficiale. Elogi e medaglie. Fatto prigioniero è spedito a Montecassino, tornerà libero soltanto nel 1919. Nel frattempo dal suo zaino pieno di appunti prende forma il Tractatus logico-philosophicus. Non regge invece Georg Trakl, suo amico, poeta espressionista, che si uccide col veleno: «La notte con le tempie maciullate/ e le braccia d’argento/ chiama a sé soldati moribondi. / Dentro l’ombra del frassino autunnale / ancora gemono gli spiriti degli uomini immolati». Aveva solo 28 anni. Due versi di Else Lasker-Schueler lo ricordano così: «Georg Trakl cadde in guerra. Di sua mano/ Sulla terra era solo. A me era caro».

Altri non perdono la capacità di ragionare: Arthur Schnitzler, ad esempio, degradato da ufficiale medico per una sua novella giudicata non abbastanza patriottica: «La guerra sta amputando gli spiriti così come macella la carne umana». E rivendica il diritto di ammirare e onorare Lev Tolstoj (un russo), Anatole France (un francese), Maurice Maeterlinck (un belga), William Shakespeare (un inglese): «Ciascuno di noi ha sì amato la propria patria, ma non ha per questo dimenticato la giustizia, il senno, la gratitudine, né ha mai perduto neppure in quest’epoca mostruosa di confusione, un po’ d’intelligenza».

Egon Schiele non va in guerra, ma vede morire suo padre, il suo maestro Gustav Klimt e di febbre spagnola la moglie incinta. «La guerra è finita ‒ dirà ‒ e io debbo andarmene». A 28 anni, come Trakl, soccomberà anche lui all’epidemia.

Un sarto e un imbianchino

Altri infine vanno al cuore del problema. Persone semplici, ma con idee chiare. Adolf Wotruba, boemo, sarto di professione e uno dei primi iscritti al partito socialdemocratico. Viene fermato con l’accusa di aver sputato sull’augusta immagine di Francesco Giuseppe. «Lo rifarei, dichiara in commissariato, la guerra chi è stato a volerla? Quanti milioni di morti e di storpi ci ha regalato la vostra bella guerra? L’imperatore, un decrepito signore della guerra, necroforo dei popoli d’Europa».

Dalla prima alla seconda guerra mondiale, all’interno di quell’unica guerra civile europea che durò con tragedie inenarrabili dal 1914 al 1945. Un reparto tedesco cattura un gruppo di partigiani della nascente resistenza jugoslava. Siamo in un piccolo paese serbo il 20 luglio 1941. I giovani sono immediatamente fucilati. Ma del plotone di esecuzione fa parte Josef Schulz, nato a Wuppertal, imbianchino. Lo stesso mestiere di un certo Adolf, austriaco di Braunau am Inn, caporale nel 1914-18. Il soldato Schulz getta il fucile, strappa le mostrine e dichiara «Ich schiesse nicht» (non sparo). È fucilato anche lui, come traditore e ribelle. Ma il suo nome non verrà scritto sul monumento che ricorda i partigiani, Un nome, troppo comunemente tedesco, stona accanto ai 14 nomi slavi. L’oblio ha coperto la vicenda del soldato Schulz fino al 1974. Riscoperta per merito di una donna di un villaggio vicino, è stata oggetto di un film e di alcune pubblicazioni.

Il 28 giugno prossimo saranno 110 anni dall’attentato di Sarajevo. Che l’umanità non abbia imparato nulla, in più di un secolo? Il libro di Forti, grande esperto di cultura mitteleuropea, è un classico livre de chevet, formato tascabile, da leggere poche pagine per volta, pochi minuti per volta, da tenere appunto sul comodino, prima di addormentarsi, purché si regga all’angoscia.

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