Esce oggi nelle sale italiane La zona di interesse, candidato a 15 premi Oscar, tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis edito da Einaudi. Il foglio lo ha visto in anteprima.

Il primo campo di concentramento che ho visitato è Mauthausen, poi Ravensbrück, due volte Auschwitz-Birkenau nei quasi quattro anni passati in Polonia – affittavo in plac Grzybowski, nel perimetro del fu-Piccolo Ghetto di Warszawa ‒, Majdanek, e anche quello poco noto di Piotrków Trybunalski. Ogni volta ne sono uscito con una nausea che mi accompagnava per giorni. Stessa sensazione fisica uscendo dalla sala cinematografica di Schindler’s List o del tremendo Il figlio di Saul.

Non così dopo la proiezione di La zona di interesse, diretto da Jonathan Glazer, Grand Prix al Festival di Cannes 2023. Esercizio estremo di straniamento, il film racconta la vita della famiglia di Rudolf Höss, comandante del campo di Auschwitz, tra l’estate e l’inverno 1943. Da quest’altra parte del muro di Auschwitz I, Frau Hedwig Höss tiene in pugno la banalità della vita quotidiana: colazione pranzo e cena grandi e piccini riuniti intorno al desco, bambini tirati a lucido che infilano la cartella per andare a scuola, l’ultima nata che strilla in continuazione, il cane – un Weimeraner nero nero – che scorrazza ovunque, la visita della nonna, festicciole e tuffi in piscina, la riunione nello studio privato intorno ai piani di un progetto di forni più efficienti. Passeggiate a cavallo, pic-nic e pesca in riva alla Soła, disturbati da qualche resto di cadavere che galleggia nella corrente. Distribuzione di regali da parte della padrona di casa: qualche bella sottoveste alla servitù slesiana, una pelliccia da stringere e tenere per l’inverno, due diamanti trovati in un tubo di dentifricio destinati alla moglie di Oswald Ludwig Pohl, il capo del marito. Hanno un tristemente noto pigiama grigio di canapa i pochi privilegiati arruolati per la cura dell’orto, della serra e del meraviglioso giardino fiorito, in punta di piedi sugli zoccoli di legno, si muovono come ombre e non fanno rumore.

Di là dal muro di Auschwitz

I rumori – grida, spari, imprecazioni, ordini, ingiunzioni, suppliche e il rombo del fuoco nei forni ‒ sono dall’altra parte del muro, onnipresente. Non c’è quasi inquadratura in cui non appaia, coronato di filo spinato: sul lato lungo del giardino, nelle finestre della sala, dietro alle tende delle camerette dei bambini, dall’uscio della cucina. E di notte la fiamma dei camini, ogni volta più alta, arrossa le aiuole, i viali e le stanze senza persiane. Il fumo riempie il cielo delle notti ‒ sequenze in bianco e nero e in negativo ‒ in cui una giovane polacca lascia cadere dalla sua bisaccia poche mele sui luoghi dei lavori forzati, all’esterno; ritrova il colore solo quando torna a casa mentendo alla madre in ansia per lei.

Veramente riuscita è la colonna sonora, a partire dai lunghi minuti iniziali di schermo nero accompagnato da un suono sordo e inquietante, che cesura a più riprese le immagini bellissime del giardino in fiore e della campagna estiva.

Tutto il film è in questo contrasto – spesso sottile ‒ di immagini e dialoghi e suoni tra il fuori che vediamo e il dentro che sappiamo. Perfino nella scena finale, Rudolf Höss, accettato l’incarico di tornare ad Auschwitz per accelerare lo sterminio degli ebrei galiziani, scendendo le scale del Wirtschafts- und Verwaltungshauptamt, pur preso da conati non riesce a vomitare mentre, nella penombra di un lungo corridoio, appaiono le immagini degli impiegati del Auschwitz-Birkenau Muzeum impegnati a pulire le baracche dei prigionieri ‒ dove si accumulano montagne di scarpe, capelli, valigie, protesi, occhiali – all’arrivo dei visitatori.

Film originale e stimolante, certo. Ma un sospetto mi rode: è una produzione anglo-polacca-americana, diretta da un regista di origini ucraino-ashkenazite; nel film tutti i cattivi – personificazione della banalità del male – sono ariani; l’unica buona è la bambina polacca (in bianco e nero e in negativo; citazione della bambina in rosso di Schindler’s List?) che distribuisce le mele. È veramente così semplice? Il Polish Film Institute, produttore del film, non sta per caso riverniciando la facciata di onesta vittima del nazismo per nulla implicata nello sterminio degli ebrei, che la Polonia difende con accanimento (tanto da averne fatto una legge che punisce chi affermasse una partecipazione dei polacchi allo sterminio), e che era stata sporcata da Il figlio di Saul?

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