Una nuova firma per il foglio, che supera le restrizioni tra realtà e letteratura, per portarci il rigore e l’acume intellettuale dell’indimenticabile protagonista del Nome della Rosa. Un nom de plume che, pur celando l’identità dell’autore, è sicurezza di stile e impegno di parresia.

L’ipocrisia è di casa in Santa Romana Chiesa. Nulla di nuovo, intendiamoci. Ma certamente è un rovello del Papa. E dovrebbe esserlo di più per tutti noi. Nell’agosto 2021 ne aveva parlato durante l’udienza generale in modo molto diretto. «Si può dire che è paura per la verità – rifletteva Francesco –. L’ipocrita ha paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere sé stessi. È come truccarsi l’anima, come truccarsi negli atteggiamenti, come truccarsi nel modo di procedere: non è la verità».

Poi, Jorge Mario Bergoglio è andato più a fondo: «La finzione – ecco le sue parole – ti porta a questo: alle mezze verità. E le mezze verità sono una finzione: perché la verità è verità o non è verità. Ma le mezze verità sono questo modo di agire non vero. Si preferisce fingere piuttosto che essere sé stesso. E la finzione impedisce quel coraggio, di dire apertamente la verità. E così ci si sottrae all’obbligo – e questo è un comandamento – di dire sempre la verità, dirla dovunque e dirla nonostante tutto. E in un ambiente dove le relazioni interpersonali sono vissute all’insegna del formalismo, si diffonde facilmente il virus dell’ipocrisia. Quel sorriso che non viene dal cuore, quel cercare di stare bene con tutti, ma con nessuno…».

Nella mia vita – di peccatore, s’intende – ho sempre sofferto molto per l’ipocrisia nella Chiesa. Che è anche, ci ricorda la Treccani, simulazione di virtù, di devozione religiosa, e in genere di buoni sentimenti, di buone qualità e disposizioni, per guadagnarsi la simpatia o i favori di una o più persone, ingannandole. Due recenti episodi hanno contribuito a far riaffiorare nella mia memoria queste riflessioni. Lo confido con sincerità, senza spocchia alcuna, in modo problematico.

La casta si autotutela

Il primo è un fatto di cronaca che riguarda la diocesi di Torino. Un sacerdote, don Marino Basso, prima rettore del santuario della Consolata, poi parroco a Pecetto – sulla collina torinese – e anche esorcista, è formalmente indagato dalla Procura di Torino per furto di opere d’arte insieme ad altre due persone. Una di queste è suo “coinquilino” nella villa adiacente alla canonica. Sul punto non introduco ricami. Il prete, comunque sia, non è nuovo ai chiacchiericci, in particolare per la gestione disinvolta dei bilanci economici, con ammanchi importanti e opere d’arte sparite (alla Consolata hanno dovuto mandare l’ex manager Fiat in pensione Paolo Monferino a sanare i conti; a Pecetto c’è chi non fida più a dare offerte, le catechiste che qualche anno fa avevano avanzato dubbi su sono state tacciate di essere «possedute dal demonio» dallo stesso monsignor Basso ed espulse, o autoespulse, dalla parrocchia).

Ora, da cittadino, sostengo convintamente che vale la presunzione d’innocenza per cui si vedrà. Bisognerà aspettare, ma non a lungo: i Carabinieri – tra sequestri e indagini – stanno stringendo il cerchio sulla brutta vicenda. Però la Chiesa si è comportata da ipocrita. Don Marino Basso, che adesso è pure «missionario della Misericordia», è stato semplicemente trasferito negli anni. Come sempre, nonostante i riverberi su di lui, esattamente con le modalità di autotutela della casta clericale che si trova nel film Il caso spotlight (vedere per credere). Al massimo, per le informazioni in mio possesso, un innocuo buffetto di rimprovero tra le mura curiali. La diocesi, che adesso è guidata dall’arcivescovo Roberto Repole (di sicuro molto più trasparente del pavido predecessore Cesare Nosiglia), è subito intervenuta per dirsi sicura che il sacerdote saprà fornire le dovute spiegazioni, nel pieno rispetto della magistratura.

In ecclesialese è un messaggio molto chiaro a don Basso. Vedremo gli sviluppi, dunque. Ma penso che in questi nostri tempi difficili ci dovrebbe essere “tolleranza zero” nei confronti di questi casi. Torino non è nuova all’insabbiamento (qualche anno fa c’è stato il caso delle “vocazioni forzate”) affinché tutto ritorni come prima. Monsignor Repole intende “lasciare aperte delle porte”, il che va benissimo, ma a patto che si tutelino le vittime (vale per la pedofilia, per le vittime degli abusi, per qualsiasi mascalzonata dei presbiteri). Situazioni del genere danneggiano in maniera pesante tutti coloro che silenziosamente s’impegnano con serietà nella Chiesa, nel volontariato e non solo (e Torino ha una grande e ricca tradizione in questo senso). E tra le vittime ci sono anche i sacerdoti che a fine mese fanno fatica a pagare il riscaldamento e vedono due pesi e due misure.

A vicende giudiziarie concluse, massima misericordia con i colpevoli, ma, per favore, giustizia e verità. Le persone coinvolte, specie se preti, dovrebbero essere pelate per danni reputazionali alla comunità cristiana – sì, intendo in sede civile – e ogni provento andrebbe destinato a chi prova con fatica quotidiana a interpretare la “Chiesa in uscita” cara a Bergoglio. Sto prendendo lucciole per lanterne? Sbaglio?

Il buonismo non ci rende adulti

Il secondo motivo del mio turbamento, invece, riguarda la lettura del primo anniversario della morte di Benedetto XVI nel dicembre scorso. Nuovamente, e con opposte posizioni, c’è chi ne acuisce le differenze e chi, al contrario, ne esagera la assoluta continuità. Mi paiono ipocrisie. Perché è chiaro che ogni Pontefice, per la sua storia e la sua formazione, è diverso da chi lo ha preceduto e meno male. Certo, la convivenza inedita con un emerito non ha aiutato, ma dovremo abituarci.

Non esistono il Bergoglio gesuita cattivo e ambiguo (mai, nella mia esistenza, a cavallo degli ultimi due secoli, avevo assistito a scritti così sgangherati e di cattivo gusto contro un Pontefice regnante) e il Ratzinger pastore tedesco. Provate a curiosare sul web. Ma, in fondo, io ritengo ipocriti e anche un po’ truffaldini gli argomenti dolciastri che esasperano la diversità come ricchezza.

I due Papi (ricordate nel 2019 il film di Fernando Meirelles sceneggiato di Anthony McCarten?) sono stati molto ma molto diversi, non contiamo storie. Dal punto di vista sia pastorale sia teologico. Mi pare ingiusto il buonismo che cerca di far rientrare tutto – ripeto, tutto – nel perimetro della Chiesa del Vangelo (ripeto: del Vangelo), sostenendo che bisogna aver pazienza, accogliere tutti e che ci possono essere modi diversi di interpretare il messaggio dell’errante rabbi galileo. Neppure l’ultimo Concilio Vaticano II, con le sue aperture al mondo, ci chiede un’operazione di questo tipo.

No, proprio non ci riesco. Non lo capisco e penso che sia fuorviante anche per la costruzione del futuro. Non sento di aver granché a che fare con cardinali che si muovono con guanti e mantelli lunghissimi o con i funerali di Vittorio Emanuele IV nel duomo di Torino. La misericordia impone le tonalità di grigio, non le mezze verità. Anche i più retrivi conservatori (retrivi, quindi non parliamo di esprimere sfumature) devono capire con chiarezza se sono dentro o fuori. Una maturità adulta nella fede ci richiede questo salto psicologico: non dobbiamo piacere a tutti, e a tutti costi, e non dobbiamo inglobare chiunque con questa distorsione, nella Chiesa. Vivremmo tutti più sereni e senza lacerazioni. Sbaglio? Sto prendendo lucciole per lanterne?

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