Riceviamo da Ennio Tomaselli, magistrato in pensione, questo intervento che – a partire dalla serie di successo – ci permette di capire meglio come funziona il carcere e in particolare l’i.p.m. (Istituto Penale per i Minorenni).

Terminata da poco (in prima serata su Rai 2, dopo aver già trionfato su Rai Play) la quarta stagione della serie-fenomeno Mare fuori, ci sarebbero tante cose da dire, ma merita un approfondimento soprattutto la questione del rapporto tra questa fiction e la realtà della giustizia e del carcere minorile.

In Mare fuori, un teen drama con tonalità soprattutto dark, il carcere minorile è una sorta di super protagonista; per i ragazzi e le ragazze, qualcosa in cui, alla commissione di un reato grave, si entra e si resta all’insegna di automatismi che, se fossero reali, sarebbero preoccupanti perché nessuno sembra aver approfondito quanto legato, ad es., a possibili scriminanti (come la legittima difesa) e a circostanze che spesso farebbero ritenere più adeguata una diversa e meno grave misura cautelare o, comunque, forma di restrizione della libertà (secondo la legge il carcere è per tutti, adulti e a più forte ragione persone di minore età, l’extrema ratio in assenza di alternative). Nel vuoto pressoché totale dei passaggi riguardanti l’accertamento delle responsabilità e la sorveglianza sull’esecuzione delle pene nonché di figure concrete e credibili di giudici e avvocati, tutto è stato costruito in funzione di un unico polo d’attrazione e di un unico grande contenitore, il carcere, quale luogo d’intreccio di storie anche molto diverse di ragazzi e ragazze.

Una scelta sicuramente abile ed efficace ma anche spregiudicata, se si gioca su un’immagine di carcere minorile distante, sempre più distante, da una realtà sicuramente complicata ma comunque assai diversa da quella rappresentata da Marefuori. Dove tutto è un concentrato di aspre tensioni e forti passioni, coinvolgenti anche figure istituzionali, in un clima irrealmente sospeso: non si parla pressoché mai di scadenza delle misure cautelari e di fine pena, così come di progetti per il “dopo” almeno auspicabilmente strutturati e condivisi con il territorio. Tutto è rimesso ad attivazioni per lo più estemporanee di un educatore, degli stessi giovani (mossi soprattutto dalle loro dinamiche affettive) e di parenti di solito inaffidabili o peggio; nonché a permessi concessi o rifiutati in base all’imperscrutabile discrezionalità di lontani e sconosciuti giudici.

Detenuti (e detenute)

Tutto ciò segnala che, anche se gli autori di Mare fuori hanno detto di essersi ispirati alla realtà dei ragazzi e delle ragazze in un carcere minorile per far meglio comprendere l’autenticità dei loro drammi (errori, ma anche storie di riscatto), l’enorme successo di pubblico è stato raggiunto soprattutto grazie ad altro, difforme dalla realtà e fuorviante per un’opinione pubblica già stimolata per lo più malamente da politici e media. Si consideri, ad esempio, che nella fiction sono fondamentali i legami affettivi tra detenuti e detenute, mostrate come presenti anch’esse in misura significativa, si direbbe poco meno che paritaria. Invece il numero delle detenute negli istituti penali minorili è estremamente ridotto. Al 31.1.2024, in tutta Italia, le ragazze erano 14, a fronte di 502 maschi (dati ministeriali). Inoltre vi sono istituti, come il “Ferrante Aporti” di Torino, che da anni sono strutturati solo per un’utenza maschile, mentre a Pontremoli esiste una struttura che, al contrario, accoglie solo ragazze.

L’irrealtà è acuita dalla sottolineatura della promiscuità. Ovunque nel carcere ragazzi e ragazze si muovono e si incontrano/scontrano senza alcun adeguato ed efficace controllo. I soggetti istituzionali rilevanti (altri sono comparse o macchiette) si riducono a una direttrice “dura” ma in realtà combattuta e talvolta ondivaga, al comandante della polizia penitenziaria (votato alla salvezza dei ragazzi ma ora in crisi, dopo essere colpito brutalmente negli affetti familiari, e tentato da istinti vendicativi) e a un educatore bravo ma alle prese anche lui con un’infinità di problemi personali (si è scoperto padre di una detenuta; i suoi rapporti, anche affettivi, con la direttrice sono connotativa alti e bassi).

L’immagine del carcere minorile appare, in definitiva, deformata ad hoc, al di là delle criticità che si riscontrano nella realtà (che sono di altro tenore e di cui si dirà più avanti). Ciò perché ben poco di quanto rappresentato potrebbe avvenire in un vero

i.p.m. e in altri ambienti quale un ospedale teatro di un delitto compiuto, con modalità alquanto inverosimili, da un giovane boss; così come in carcere il trio direttrice-comandante-educatore improvvisa, talvolta, improbabili indagini di competenza della magistratura. Tutto questo stride con il forte realismo che, secondo chi l’ha prodotta e realizzata, dovrebbe caratterizzare la serie; realismo che non può ridursi, genericamente, a un certo contesto ambientale e sociale (Napoli, la camorra, il disagio…). Il che è negativo anche perché si è persa un’occasione per trattare in modo più convincente e davvero realistico temi importanti che pure affiorano. Come la situazione dei rampolli di famiglie camorristiche di spicco; la solitudine e la disperazione, al di là delle apparenze, di ragazzi cresciuti in famiglie distruttive; la condizione, fuori e dentro il carcere, dei gay; il trauma e le conseguenze della violenza sessuale; disagi e disturbi della personalità di varia matrice.

Per la prima delle situazioni citate si è scelta la chiave narrativa dell’amore “alla Giulietta e Romeo” fra una ragazza e un ragazzo di famiglie antagoniste, ma con forzature tali da rendere la storia priva di drammaticità credibile. La problematica legata a prese in carico terapeutiche spesso carenti e a un sostegno psicologico complicato e inadeguato è stata sì accennata, ma nel contempo “risolta” grazie a un carcere che in qualche modo cura esso stesso, una volta si sarebbe detto con “sano paternalismo”. Sofia, Massimo e Beppe (ovvero la direttrice, il comandante e l’educatore) riusciranno, nonostante tutto, a far prendere dei diplomi, ad avviare qualcuno al lavoro all’esterno (anche se il contesto potrà risultare del tutto inadeguato…) e perfino a predisporre tutto per il matrimonio dei due “innamorati impossibili”, bypassando non si sa come questioni di forma e sostanza (la ragazza è ancora minorenne, ma è dato per scontato che il tribunale per i minorenni, che non compare mai, autorizzerà le nozze…).

Un carcere lontano dalla realtà

Insomma, in Mare fuori il carcere è comunque, bene o male, salvifico. Qualcuno, ahimè, non verrà recuperato e potrà anche lasciarci la pelle, essendo rimasto insensibile ai moniti e all’empatia istituzionale; ma per gli altri qualche soluzione, magari imperfetta, si troverà. Come quell’approdo (in realtà impossibile) al lontano i.p.m. torinese della ragazza con diploma di maturità; o quell’avvio al lavoro conicani del giovane appassionato di essi, anche se sarà poi lui, autonomamente, a trovarsi una collocazione adeguata… Tutto ciò, trattandosi di una fiction, può anche far sorridere. Ma si sorride assai meno pensando che la bravura dei giovani interpreti poteva essere valorizzata maggiormente da una narrazione convincente e, soprattutto, che Mare fuori fa comunque presa sul grande pubblico, e quindi sull’opinione pubblica, mentre il carcere minorile sta diventando una realtà sempre più complicata e potenzialmente esplosiva per ben altro. Come segnala “Antigone” sulla base dei dati più recenti, per il secondo anno consecutivo le presenze negli i.p.m. aumentano egli effetti del “decreto Caivano” (15.9.2023 n. 123, convertito nella legge n.159/2023), che prevede la possibilità del carcere anche per reati ben diversi e meno gravi di quelli di cui si parla nella fiction, non potranno che risolversi in aumenti ulteriori;così come si sta già registrando un aumento in una fascia d’età chiave (16-17 anni) e, complessivamente, nella percentuale di chi è ancora minorenne (in passatoi giovani adulti sono stati, a lungo, di più).

In una situazione reale sempre più difficile da gestire con le risorse messe finora a disposizione della giustizia minorile (che dovrebbe puntare al potenziamento delle strutture comunitarie e delle sinergie con il territorio e il volontariato, entrambi poco o nulla presenti in Mare fuori), si è indotti, conclusivamente, a pensare che una serie come questa, ancorché ideata già anni fa, sia coerente con l’immagine e la funzione del carcere minorile su cui punta la maggioranza politica attuale.

Ennio Tomaselli

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