Un amico mi chiede di spiegargli l’ultimo film di Wim Wenders, ma intanto annota una serie di immagini e citazioni che evocano l’atmosfera del film:
«”Come sarebbe bello se tutto restasse com’è” dice la signora del bar. Bontà e gentili inchini, accennati. L’amico degli alberi fotografa rami e foglie, e luci. Vediamo i suoi sogni, mentre dorme. Sorriso e pianto si sovrappongono. E anche le ombre. “Si possono calpestare le ombre?”. Poi torna a leggere e a dormire, rasoterra. Quando esce, ogni mattino, saluta il cielo. Da uno a dieci, facciamo otto, nove, spettatori che ho visto illuminati? Le autostrade urbane una sull’altra, e sempre la torre a punta. Ma anche i giardini, e i personaggi solitari, che si comprendono».
Aggiungerei soltanto che c’è molto dell’Estremo Oriente taoista o zen, o meglio del Giappone e della sua antica cultura, che in qualche modo resiste nelle metropoli contemporanee. La contemplazione, la concentrazione, il silenzio; e l’attitudine a cogliere, nelle cose minime e nel quotidiano, l’armonia dell’universo. Osservando partecipi, e conservando nonostante il flusso degli eventi la pace interiore. La bellezza di vivere ‘adesso’ (che non esclude un pizzico di nostalgia, trasparente nelle audiocassette di canzoni d’altri tempi): perché «un’altra volta è un’altra volta, e adesso è adesso. Due mondi diversi, e poi un altro diverso ancora».
Perché perfect days? Perché tutto è teso verso una perfezione, anzi la perfezione è già presente in ogni atto: nel lavoro più umile (dell’addetto ai bagni pubblici urbani) come nella cura più generale del proprio ambiente. La perfezione è nella consapevolezza, nel qui e ora, nella meditazione che permea di sé ogni istante: in un rituale ordinato che riflette la corrispondenza tra piccolo e grande, tra microcosmo e macrocosmo. Un messaggio che travalica i tempi e le generazioni. Quasi senza parole: come l’intesa profonda che si crea tra l’anziano protagonista e l’inquieta nipote adolescente.
