Preoccupa non poco che a due anni dall’invasione russa un’autorevole rivista di geopolitica, «Limes», titoli il proprio fascicolo Stiamo perdendo la guerra (dove il soggetto sottinteso, pare di capire, siamo noi europei).

Ma avrebbe anche potuto intitolare Stiamo scivolando verso la Guerra. Infatti sin dall’editoriale ci avverte che «causa prima della Guerra Grande è la rapida decadenza dell’impero americano» (riscontrabile anche in Medio Oriente); e che in assenza di nuovi equilibri precipitiamo in Caoslandia, ovvero in un mondo senza ordine.

In questo quadro viene messa in evidenza la crisi cui va incontro l’Unione Europea: crisi che non a caso coinvolge in primo luogo l’ex locomotiva del continente, la Germania, che ha assistito in silenzio al sabotaggio del gasdotto sottomarino Nord Stream 2 e ai maldestri tentativi di attribuirne ai russi la responsabilità. E che subisce un grave contraccolpo nella propria economia e teme ormai il trionfo dell’estrema destra AfD, che minaccia l’uscita dall’Ue (un colpo mortale per l’Unione).

Intanto, come non bastassero i 140 miliardi di aiuti sin qui stanziati da Bruxelles, circola la proposta (del ministro degli esteri ucraino Kuleba) che vengano espropriati i 300 miliardi di dollari – di cui 207 in euro ‒ appartenenti a cittadini russi e congelati nelle banche occidentali: un modo, si dice, per far pagare a Putin il prezzo della sua guerra. Sinora la Bce resiste, perché si tratterebbe di un segnale allarmante per i grandi investitori, dai paesi arabi alla Cina, che non riterrebbero più affidabile l’euro come moneta di riserva.

Quanto agli investimenti per la Difesa, la Germania ha dato l’esempio con uno stanziamento straordinario di 102 miliardi. E si è aperto, nel paese, il dibattito sulla Bomba. Visto che la Francia non accetta una condivisione europea della force de frappe, produrla in proprio? Ma, osservano i critici, oltre ai costi enormi occorrerebbero almeno dieci anni, con il rischio di incoraggiare un attacco preventivo.

Un passo dopo l’altro

Nel frattempo il fossato che separa Mosca e l’Europa si è allargato a dismisura, anche con la scelta occidentale di negare sistematicamente i visti e gli ingressi ai cittadini russi. Nulla di paragonabile ai rapporti intrattenuti negli anni Settanta (all’indomani dell’invasione della Cecoslovacchia) con l’Unione Sovietica di Breznev. Allora, nonostante l’anticomunismo e la denuncia della repressione del dissenso, le relazioni diplomatiche si sviluppavano ‒ basti pensare all’Ostpolitik di Willy Brandt ‒ e sfociavano nella Conferenza di Helsinki, mentre si moltiplicavano gli accordi commerciali (e la Fiat produceva a Togliattigrad). Oggi si tende invece ad azzerare qualsiasi scambio o cooperazione, come di fronte a un nemico perpetuo con cui la frattura è irreversibile, la coesistenza impensabile e la trattativa impossibile.

Nessuno, due anni fa, avrebbe immaginato l’attuale grado di coinvolgimento tecnico-militare della Nato a supporto dell’Ucraina e uno smantellamento così completo dei rapporti con la Russia. Sicché non sorprende che Macron abbia accennato a un ipotetico e futuribile invio di soldati europei. Si era detto che non si sarebbero dati né missili né F16 e poi li si è mandati: chi può escludere l’invio di truppe?

Anche perché in prospettiva la debolezza dell’Ucraina dipende – più che dalla scarsità di armi – da quella di soldati da mettere sul campo e nelle trincee (la Russia, tristemente, ha più carne da cannone da spedire al macello). Al punto che il governo ucraino discute se costringere al rientro e all’arruolamento quel mezzo milione di maschi adulti che sono emigrati: si minaccia addirittura una confisca dei loro beni.

Dove conduce la strada

Ancora un anno fa Macron ammoniva a «non umiliare la Russia»; oggi sostiene che «la sconfitta della Russia è indispensabile per la sicurezza in Europa». Ma è difficile dimenticare quanto sostenuto più volte dal generale Mark Milley (sino all’estate scorsa comandante in capo dell’esercito statunitense), convinto che occorre perseguire una soluzione negoziale perché non c’è e non ci sarà soluzione militare al conflitto.

Sinora i fatti sembrano dargli ragione, ma le sue parole sono cadute nel vento. Putin, si osserva, è un dittatore imperialista: e con i dittatori imperialisti non si parla. La diplomazia, che persino negli anni più bui della guerra fredda continuava a operare, ora tace. Si lavora ormai esclusivamente ad alimentare la paura.

Non occorre la sfera di cristallo: gli ingredienti di quella che «Limes» definisce la Guerra Grande ci sono tutti, sempre più riconoscibili e sempre più abbondanti. Tanto varrebbe che la meta ci fosse indicata apertamente e ne fossimo almeno consapevoli. Per non procedere come pecore verso il mattatoio. E per considerare attentamente ogni possibile alternativa.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy