Due “casi” hanno caratterizzato questa vigilia del 25 aprile: il rinvio a giudizio di Luciano Canfora, querelato da Giorgia Meloni per averla definita, quando non era ancora presidente del Consiglio, «neonazista nell’anima» e la cancellazione del monologo dello scrittore Antonio Scurati da una trasmissione di Rai3.

Il “caso” Scurati certifica quattro acquisizioni: il governo (e i suoi zelanti sostenitori) hanno un problema con la gestione indipendente della tv pubblica; il governo ha un problema con l’antifascismo, nel riconoscerne i principi come costitutivi della Repubblica; in uno Stato democratico la censura è un mezzo miope, che spesso produce l’effetto contrario, garantendo all’intervento censurato una visibilità che altrimenti non avrebbe avuto; la presidente del Consiglio ha un’attitudine a mentire e una ragionevole certezza di non avere ricadute elettorali dalle sue mancate verità: trasformare una scelta editoriale e ideologica in economico è un atto vigliacco di cui non vedo i vantaggi.

La “censura” del monologo di Scurati segue un altro comportamento che mostra una certa allergia al dibattito democratico della presidente del Consiglio: la querela rivolta a Canfora da Giorgia Meloni, che è, se vogliamo, un precedente di questo conflitto identitario. Data la sua posizione di forza, avrebbe potuto limitarsi a una replica dialettica, magari memore di quando Berlusconi definì Martin Schulz, leader della Spd, «kapò».

Espressa la dovuta solidarietà a Canfora e Scurati, tuttavia mi sembra opportuno riflettere su quale rappresentazione dell’antifascismo e della Resistenza viene veicolata da interventi di questo tipo. Definire Giorgia Meloni «neonazista nell’anima» può strappare applausi tra chi la contesta e biasimi tra chi la sostiene, ma crea una sostanziale confusione che non ci aiuta a comprendere né il nazismo di allora, né il neonazismo di oggi, né le tipicità del governo meloniano di oggi che non può essere sovrapposto né con il nazismo storico, né con il neonazismo. Certo una battuta non è un saggio storico, ma veicola uno sguardo sulla destra dove tutto diventa una pappa indistinta. Lo stesso uso del termine «neonazista» sembra utilizzato come un iperbole peggiorativa rispetto a «neofascista», che semmai rappresenta il milieu di derivazione della cultura di Fratelli d’Italia. In questa maniera quasi si legittima il vecchio adagio per cui il fascismo, rispetto al nazismo, era una dittatura più leggera, e si tralasciano le forti consonanze tra i due regimi e gli apporti dati dal primo al secondo. Certo, l’autorevole storia intellettuale di Canfora basta da sola a smentire un tale assunto, ma la frase resta infelice per la sua infondatezza storica, ma anche perché contiene un involontario effetto attenuante verso il fascismo.

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