Dunque il tentativo di Giorgia Meloni di accreditarsi come leader europeo e mondiale, dopo le elezioni europee e il G7 di Bari, è miseramente crollato come un castello di carte alla prima ventata. È difficile tenere il piede in due staffe per lungo tempo e i presunti successi erano unicamente contenuti nelle veline televisive e nei comunicati e conferenze stampa senza contraddittorio. Di qui il bilioso discorso alle Camere del 26 giugno scorso in cui, con il consueto tono da comizio, lamenta di “inciuci”, “caminetti” e “conventio ad excludendum” ai suoi danni. In realtà a Bruxelles hanno una memoria storica un po’ più lunga della nostra e non hanno dimenticato il filone culturale del neofascismo dal quale proviene la nostra premier, né l’atteggiamento fortemente critico contro le istituzioni europee in più casi evidenziato nelle sue dichiarazioni. «Uscire dall’euro, uscire dall’Ue» non sono poi affermazioni così lontane nel tempo. Si aggiunga infine la frequentazione degli ambienti neofranchisti spagnoli di Vox, con i quali pare che Giorgia Meloni si trovi benissimo.

E a questo punto e in coerenza con questi motivi si inserisce la complessa e anche un po’ pasticciata architettura europea. Si dice: le cariche più alte vanno distribuite equamente tra le forze in campo. Ciò può essere vero per la presidenza del Parlamento (carica di garanzia), molto meno per la presidenza del Consiglio Europeo, in cui siedono i rappresentanti degli Stati e meno ancora per la presidenza della Commissione chiamata ad attuare un programma politico e munita di iniziativa legislativa, funzione che il Parlamento, contro ogni logica, attualmente non ha. Un programma che rafforzi l’efficacia dell’Ue deve essere espressione di una “maggioranza di governo” che almeno all’Unione ci creda. Le forze che l’Europa (al di là delle dichiarazioni di facciata) la vogliono demolire è bene che stiano all’opposizione, visto che sono, per fortuna, minoranza. Tra queste, due partiti che compongono l’attuale governo italiano. Nessuna esclusione quindi, ma semplice dialettica democratica. Le stesse considerazioni valgono per la quarta carica top job, l’alto rappresentante per la sicurezza e la politica estera, rilevante di immagine ancorché dotata di modesti poteri. Ma la marginalità delle posizioni italiane è stata tale negli ultimi tempi che persino il Presidente Mattarella è intervenuto ricordando comunque l’importanza dell’Italia nel consesso europeo. A parte le frequentazioni della Meloni con Orban e Fico, ricordiamo il no dell’Italia al nuovo patto di stabilità e crescita, alla direttiva sulla rinaturalizzazione di parte dei terreni agricoli (con altri 5 stati), il no persistente al Meccanismo Europeo di Stabilità, che ne impedisce l’utilizzo a tutti gli altri Stati e altri casi in cui il nostro governo esprime una sparuta e ininfluente opposizione. Ovviamente questi pensieri mi garantiranno la qualifica di “nemico della patria”, che in alcuni paesi del mondo (non pochi), si tradurrebbero nel reato di «attività antinazionale», severamente punito.

Qualche ulteriore approfondimento può essere utile. Riordinare i vecchi giornali è impresa faticosa ma talora utile. Così nei giorni scorsi mi sono imbattuto in un pezzo di Piero Ignazi, sul «Domani» del 3.10.2021. Riferendosi al congresso di Fratelli d’Italia 2017, l’autore osserva che «si imputa all’illuminismo l’origine di tutti i mali, in particolare la responsabilità di aver combattuto la tradizione e l’autorità in nome della ragione». Quindi la comunità politica di FdI sarebbe basata sulla dicotomia «sangue e terra» (Blut und Boden) contrapposta alla «ragione». E ancora «denaro contro sangue» con una lettura in chiave antiebraica cara a Ezra Pound e a Julius Evola per la quale nel congresso il finanziere G. Soros (definito «usuraio») diventa un novello Shylock del Mercante di Venezia. «Simbologie e riferimenti culturali», conclude Ignazi, «esperienze gergali e posture di questo mondo sono all’ordine del giorno tra sostenitori e quadri dirigenti del partito». Nessuno si stupisca allora se quasi tre anni dopo, i servizi di Fanpage rivelano pesanti nostalgie fasciste, naziste e un preoccupante, sbracato antisemitismo negli aderenti a Gioventù Nazionale. Le cose vengono da lontano. Fin dagli anni ’80 si segnalavano campeggi paramilitari a Fort Pramand, in alta Valsusa, poi i convegni culturali di Atreju, per giungere alle cene commemorative del 28 ottobre e, perché no, al ricordo di Léon Degrelle, cattolico-nazista belga, criminale di guerra, definito dai giovani veronesi di FdI «cavaliere senza macchia e senza paura». In questi casi, nel partito, la reazione è sempre la stessa: comunicati indignati, quando ci sono, vola qualche straccio, qualche figura di secondo piano si dimette. Poi tutto torna come prima e si ricomincia da capo perché, sempre citando Piero Ignazi «l’impronta del fascismo non si cancella mai». La differenza rispetto al passato, però, non è da poco. Queste forze sono democraticamente giunte col voto popolare, nel 2022, al governo della Repubblica italiana.

Nella stessa seduta della Camera del 26 giugno è stato commemorato dall’on. La Salandra l’ex sindaco di Foggia ed ex deputato Paolo Agostinacchio. «Un galantuomo della politica, un missino tutto d’un pezzo, tale nato e tale morto, “rautiano” d’ispirazione. Quando si spegne un galantuomo quale era, non si chiude un libro da scrivere, ma inizia una storia da raccontare». Con il doveroso rispetto di fronte alla morte di ogni uomo, è utile tuttavia ricordare la figura di Pino Rauti, giovanissimo volontario nella Repubblica Sociale Italiana: «Dopo la sconfitta del 1945 la propaganda antifascista non cessava di martellarci. Se si è mobilitato il mondo intero contro di noi, pensammo allora, vuol dire che siamo stati qualcosa di grande» («La sfida», n. 7, 1.04.1948). Seguace di Julius Evola, ebbe qualche problema con la giustizia per l’accusa di ricostituzione del partito fascista e in anni successivi fu segretario del Movimento Sociale. Sua figlia Isabella fa parte come sottosegretaria del governo Meloni. Vi confesso che ho provato un certo disagio nel sentire evocare queste figure in Parlamento, massima istituzione della Costituzione antifascista del 1948.

Tra tante pericolose e inquietanti nostalgie segnalo in chiusura un video di Aldo Cazzullo, che ha il merito di far riflettere su qualche verità storica, smascherando comode mistificazioni. Quella per esempio che distingue un fascismo “accettabile” prima delle “leggi razziste” del 1938, dallo “sfortunato” periodo successivo. Alleanza con Hitler, guerre di aggressione all’Albania, alla Grecia, alla Francia e alla Gran Bretagna, all’Unione sovietica e, per finire, agli Stati Uniti. Occorre risalire al biennio nero 1921-22, ben rievocato, tra gli altri, dallo stesso Cazzullo (Mussolini, il capobanda) e da Mimmo Franzinelli (L’insurrezione fascista) per comprendere il clima di sopraffazione e violenza che caratterizzò la lotta politica di allora. Con l’eliminazione fisica, l’esilio o il carcere per molti oppositori politici della prima ora. Quella tragica stagione culminò con il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti, allora segretario del Partito Socialista Unitario. Sette mesi dopo, il 3 gennaio 1925, Benito Mussolini affermava alla Camera: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io ne sono il capo». Iniziava la lunga notte del ventennio.

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