La prima lettura dall’AT (Deuteronomio 4,32-34.39-40) non poteva che affermare ripetutamente l’unicità di Dio; una cosa di per sé non scontata, poiché solo con la tradizione deuteronomistica (intorno al 600 a. C.), e subito dopo col Deutero-Isaia (550 a. C.), nasce il monoteismo puro. Prima infatti il popolo d’Israele era enoteista: cioè noi abbiamo il nostro unico Dio, gli altri popoli… avranno i loro Dei, di cui, vagamente e in forma non riflessa, si presume l’esistenza.

Il vangelo per la solennità di oggi era obbligato: infatti è l’unico passo del NT in cui ricorre esplicitamente la Trinità nella formula battesimale «ammaestrate tutte le nazioni [ethnê, neutro plurale] battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Con un unico passo tardivo, post-matteano perché mal concordato [per coerenza dovrebbe essere “battezzandole” (al neutro), anziché il brusco passaggio al maschile battezzandoli (autous); mentre in Mt la concordanza al neutro (sing. auto, plurale auta) è rispettata in più di venti passi! In pratica sempre!], in che misura il NT può fondare la dottrina della Trinità?

Ci sono certo segni della Trinità nel quarto vangelo. La dualità delle persone del Padre e del Figlio è immediata; non così per lo Spirito che è comunque la meno-personale delle tre. Anche se è logico che la capacità di amare presupponga una personalità, di primo acchito potrebbe apparire più come una forza propulsiva che rinnova, salvandoci dal pericolo di diventare replicanti senza immaginazione: che ripetono sempre le stesse cose (il Giubileo 2025) e i medesimi antichi riti ingessati e freddi senza svecchiare il linguaggio. Come dice la Sequenza della Pentecoste sullo Spirito santo, qui si tratta di «riscaldare ciò che è gelido e raddrizzare ciò che è sviato»; salvo poi andare in forte ebollizione su certi temi extra-evangelici o comunque del tutto marginali (gender, fine-vita, anticoncezionali…), per recuperare con la difesa a oltranza dei valori non-negoziabili un’identità cristiana smarrita. Qui si tratta di «piegare ciò che è rigido» raffreddando il fanatismo della religione che (s)ragiona sostenendo l’extra-cristiana Dea natura (Humanae vitae).

Dato che negli Atti si battezza sempre e solo nel nome di Gesù, la suddetta formula battesimale è quasi un’interpolazione; lo stesso avanzato quarto vangelo (1ª ediz. di Ev1 intorno al 100-110 d. C.), pur parlando del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, non li riunisce mai in una triade. Come mai, dato che è sicuro che almeno Re2, l’autore della seconda edizione intorno al 140 d.C., conosce il vangelo di Matteo diffuso in Siria prima di quello giovanneo? Significa che la formula battesimale trinitaria ancora non esisteva nella prima metà del secondo secolo nel vangelo di Matteo, altrimenti Re2 l’avrebbe riprodotta al volo.

La dimostrazione che Re2 si adegua a Matteo evitando di contraddirlo è il pasticcio da lui combinato nel processo al Sinedrio in Gv 18,12-14.19-24: in origine (Ev1) il processo si svolge a casa di Anna, che era il sommo sacerdote. Ma Re2 apprende da Matteo che il sommo sacerdote era invece Caifa (Mt 26,57 è l’unico a chiamare Caifa il sommo sacerdote in carica, mentre gli altri due sinottici ne tacciono il nome), quindi corregge il suo predecessore (in corsivo le parti aggiunte in 18,13): «e lo condussero prima da Anna: egli era infatti suocero di Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno». Ma poi il processo si svolge comunque davanti ad Anna, che non è più il sommo sacerdote, e in maniera assurda col sommo sacerdote Caifa assente!! Infatti in 18,24, finito il processo, si dice: «Allora Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote»; tanto che un manoscritto siriaco, per sanare il pasticcio, ha saggiamente anticipato il 18,24 a dopo il 13, così il processo si svolge regolarmente davanti a Caifa.

Ovviamente che il sommo sacerdote in quell’anno fosse Anna o Caifa è del tutto irrilevante: ma serve a dimostrare la dipendenza di Re2 da Matteo, anche per altri passi del vangelo. D’altronde era praticamente impossibile determinare chi fosse sommo sacerdote in un determinato anno perché, come ci riferisce Giuseppe Flavio, un’intera famiglia, cosa inaudita mai successa prima, aveva esercitato tale somma funzione per una decina d’anni alternando i propri membri: prima il suocero Anna, poi il genero Caifa e altri familiari a seguire cambiando ogni anno.

Concludendo, Re2 non solo non legge la formula trinitaria, ma neppure i racconti dell’infanzia di Matteo (ancora assenti nella prima metà del 2° secolo); nelle feroci controversie di Gv 7 la gente obietta al galileo Gesù: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?» (7,42). Ma Re2 nulla sa della nascita a Betlemme, e men che meno della concezione verginale [entrambe senza fondamento storico], altrimenti avrebbe controribattuto all’obiezione sottolineando l’origine davidico-betlemita di Gesù, che invece è nato a Nazareth e Betlemme non l’ha mai vista.

Ma torniamo alla Trinità, che non è un rompicapo per cercar di capire come si possa essere nel contempo uno e tre; in verità nel corso della storia si son cercate delle analogie di essa con certe “nostre” triadi: ad es. memoria, intellectus, voluntas (S. Agostino); sorgente, fiume, foce (S. Anselmo); essenza, forma, forza (Lutero); l’altra di Lutero è solo divertente: grammatica, dialettica, retorica; oppure una suddivisione più storica come le tre epoche: l’epoca veterotestamentaria del Padre, quella di Cristo (la svolta del mondo: un termine più moderno per indicare il salvatore del mondo), e poi l’epoca dello Spirito. Rinunciando alle espressioni più alte e astratte della dogmatica, la Trinità significa in primo luogo che Dio vive; e vive relazionandosi nel proprio intimo (ad intra). L’adagio di Karl Rahner «La Trinità immanente è la trinità economica e viceversa» significa che la Trinità immanente (ad intra) corrisponde alla trinità economica, cioè alla sua relazione col mondo degli uomini per l’economia della salvezza (ad extra; non si tratta ovviamente di economia finanziaria). Il cosiddetto Deus absconditus (il Dio nascosto) va preso con le molle, perché Dio è sì invisibile ma non sconosciuto; e non viene certo conosciuto tramite le apparizioni mariane: una recente modifica (di 15 giorni fa) stabilisce che non sia più il vescovo diocesano bensì il Papa a dichiarare l’autenticità o meno di simili… allucinazioni (se non frodi).

La Trinità significa la distinzione del Padre invisibile dal Figlio visibile come uomo, e dallo Spirito che regna come legame dell’unità e dell’amore tra Padre e Figlio (incarnato nella storia), e che produce fra noi in modo invisibile effetti visibili. Lo Spirito è dunque la relazione invisibile ma forte che costituisce la vitalità di Dio tra Padre e Figlio, ma è anche il suo potente rivolgersi agli uomini che vengono coinvolti nel rapporto del Figlio col Padre. Questo in particolare nei nostri confronti: lo Spirito Santo ricevuto [nella seconda lettura di Paolo ai Romani 8,14-17] ci «rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo Abbà! Padre!». [Abbà è una tipica Lallform (Joachim Jeremias), cioè una fanciullesca forma “balbettante-balbuziente” per agevolare la pronuncia dei bambini piccoli col raddoppio della medesima sillaba, come ad es. i nostri pa-pà, mam-ma, pi-pì, po-pò, bon-bon ecc.]. Pure in questo passo di Paolo spira un clima trinitario, anche se non viene esplicitata formalmente la triade Padre, Figlio e Spirito, come invece nella suddetta formula battesimale. In breve: il Padre ama il Figlio e viceversa, e lo Spirito è (l’evento di) questo amore che li plasma in un unico essere, permeato di relazioni che costituiscono la sua esistenza. Quindi Dio viene e diviene, per cui la Trinità è una storia, la storia dell’umanità di Dio; anzi questa storia dell’amore è Dio stesso!

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