Cominciamo da oggi una “rubrica” di poesia: due volte al mese Maria Nisii commenterà per noi una poesia. Questa è la prima. Non è letteratura, non è attualità, non è spiritualità: Maria Nisii legge un bel po’ di poesie e quando un verso cattura la sua attenzione commenta quasi solo quello, perché ha sentito una notizia, una storia… e le due cose insieme la fanno – e ci fanno – pensare.

sanguina da ogni ferita

viene violentata ancora e ancora

è tradita calpestata frantumata decapitata

         torturata squartata disintegrata

membra perdute sono state

sostituite da protesi mostruose

è alienata da se stessa da noi e da tutto

è schizo e neuro e psico

trapassata di nuovo e di nuovo da aghi con i quali

         sono state iniettate sostanze aliene

agonizza senza fine

è forse già morta o non ancora o

         tuttora discute il consilium dei medici

e DUNQUE diviene la parola DIO

         l’ultima delle parole

il più depredato di tutti i concetti

la più svuotata metafora

la proletaria del linguaggio

(Kurt Marti, La passione della parola DIO, Claudiana 2014, p. 33)

Nei giorni successivi all’attentato nel teatro di Mosca compiuto il 24 marzo dall’Isis-k al grido di «Allah akbar», il dolore per queste morti innocenti è stato ancora una volta gravato dalla morte della parola Dio, «la parola più vilipesa di tutte le parole umane», come esemplarmente ricorda Martin Buber: «Nessuna è stata tanto disonorata, tanto mutilata […] Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno lacerato questa parola […]. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali e il loro sangue. Gli uomini disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola ‘Dio’. Si assassinano gli uni gli altri e dicono ‘lo facciamo in nome di Dio’[…]. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l’ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di ‘Dio’».

Sanguina da ogni ferita, violentata, tradita, calpestata, frantumata, decapitata, torturata, squartata, disintegrata, la parola Dio si è svuotata di senso, langue inerme tra le rovine di un linguaggio depredato. Invece della più giusta ritrosia, che chiederebbe un passo indietro di fronte al mistero della trascendenza, si depreda il concetto, si svuota la metafora. In luogo di preservare l’alterità del Totalmente Altro, lo si sostituisce con un fantoccio mostruoso e alieno fatto da mani d’uomo. Si uccide la parola che dice il divino, in una rinnovata e mesta “passione”.

*

Rapito da una forza ignota che lo ha colmato di un senso di beatitudine, anni dopo Eric-Emmanuel Schmitt sceglie di raccontarne l’esperienza, vissuta una notte nel deserto del Sahara, nel romanzo La notte di fuoco, in cui cerca di descrivere l’indescrivibile, l’innominabile, l’impensabile. Per non cadere nella teologia negativa, lo scrittore francese, come hanno fatto tanti altri prima di lui, come da sempre fa la stessa teologia e come soprattutto i poeti sanno fare, cerca di dare una parola a quella forza che l’ha avvinto una volta, perché nulla fosse più come prima:

«Non so dargli un nome. Lui non si è mai dato un nome. Esiste. Chi? Chi è il mio rapitore? Chi mi ha strappato ai burroni per inondarmi di gioia? Le parole si propongono in massa, un esercito che sono costretto a bloccare. È possibile descrivere una forza che non è in un corpo, una presenza che ignora la forma? Faccio fatica a figurarmi Colui nel quale mi sono fuso, perché non si può vederLo né sentirLo né toccarLo né abbracciarLo. Abbandono l’idea di qualificare ciò che non è vivo né morto. In più lo stato maggiore delle parole, ovvero la grammatica, mi gioca brutti scherzi obbligandomi a parlare di Lui come di una persona, quando invece non mi è affatto apparso tale. Scuoto la testa per scacciare le milizie lessicali. Chi è il mio rapitore? Ci penso con affetto… Sono incantato… Mi ha rapito… Per procedere oltre dovrei probabilmente chiamarlo Dio. O Fuoco…» (edizioni e/o 2016, pp. 153-54).

Forse non è la parola più adatta, stando così le cose. Oppure forse non ne troviamo di migliori. Magari non sappiamo sottrarci all’abitudine e alla tradizione. Fatto è che non la preserviamo a sufficienza. La parola che dice il divino è un nominare che non è conoscenza, scaturisce dal silenzio, dalle profondità dell’essere e dallo scandaglio di tali profondità. Consapevoli dell’insidia di ogni parola.

*

Pastore svizzero, Kurt Marti (1921-2017) ha studiato teologia a Berna e Basilea dove incontra Karl Barth; si è impegnato politicamente prima contro l’armamento atomico del suo paese e poi contro la guerra americana in Vietnam. Nonostante i riconoscimenti internazionali per l’opera poetica, ha subito forti critiche per le sue posizioni di sinistra. Per approfondire: https://www.artiteologie.it/poesia-e-teologia-kurt-marti/

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